Recensione
di Trys dienos
«Due specie di film: quelli che impiegano i mezzi del teatro
(attori, messa in scena) e si servono della macchina da presa al fine di riprodurre;
quelli che impiegano i mezzi del cinematografo e si servono della macchina da
presa al fine di creare».
(Robert
Bresson, Notes sur la cinématographe, 1950–1958)
Se
si definisce realista il primo lungometraggio del lituano Šarūnas Bartas, questo Trys dienos,
occorre chiarire come esso si discosta dalle più diffuse definizioni del
termine. Trys dienos non assoggetta la propria coerenza alla realtà al
desiderio di esprimere concezioni morali o rendere cosciente lo spettatore
circa problematiche sociopolitiche – obiettivi che si manifestano nel
neorealismo italiano o più recentemente nel cinema di autori internazionali
quali i fratelli Dardenne, Mike Leigh o Ken Loach. La contrapposizione non è
esclusivamente tematica, bensì anche metodologica. Trys dienos si spinge
infatti ben oltre nella sua radicalità, rigettando interamente la recitazione
naturalistica di derivazione teatrale e riprendendo insomma la lezione
bressoniana: i suoi attori svuotano i movimenti corporei e le espressioni
facciali di qualsiasi manifesto contenuto emotivo (è qui, forse, che si rivela
il senso etico del film: l'attore non può e non deve ingannare lo spettatore
fingendo di essere e di provare più di quanto sia e provi). Trys dienos racconta
di due fratelli di campagna che, colmi di speranza, giungono a Kaliningrad, forse in
cerca di fortuna. Conoscono due ragazze, c'è uno scambio di timidi sorrisi. La
città portuale russa che assisté alla nascita della filosofia kantiana (è
infatti l'ex-Königsberg) è ormai caduta in decadenza – i quattro giovani
vagabondano tra cantine dai muri scrostati e ostelli diroccati, barcollano sui
tetti di palazzi popolari, tracannano vino scadente dalle proprie bottiglie di
vetro. Il peregrinaggio di questi ragazzi di strada dai visi scavati e i denti
ingialliti appare ambiguo, quasi insensato. Sono troppo stanchi e affamati per
sorridere o sussurrare più di due sillabe, figuriamoci per caricare le proprie
azioni di una qualche causalità. Vivono e basta. La progressiva alienazione è
catturata dalla macchina da presa attraverso l'atto dello sguardo: si
evolve dall'ottimismo iniziale – il giovane che osserva la chiatta che,
attorniata dai gabbiani, arranca nelle acque del porto (la speranza di
un'occupazione lavorativa?) – alla scoperta del profondo disagio sociale in cui
versa Kaliningrad – il giovane che scruta il condominio di fronte e, ciascuno
alla propria finestra come un Playtime sovietico e depresso, le puttane
e gli uomini incravattati che esse frequentano – per giungere alla comprensione
definitiva di sé – la ragazza che guarda, oltre la corte, un ballo
aristocratico: la musica giunge ovattata, il suo sguardo è vuoto; la scissione
tra i quattro e tutti gli altri è esistenziale, ancor prima che sociale o
economica. Rimarranno soltanto le pozzanghere increspate davanti al treno che
riporterà a casa i due giovani. A Kaliningrad il processo di urbanizzazione ha
generato una mostruosità logica: esso è come una circonferenza, dove il punto
il punto di partenza (l'assenza di civiltà che sarà sfidata nel successivo Mūsų
nedaug, ambientato presso il popolo nomade turco dei Tofalari) coincide col
punto cui si giunge percorrendola interamente (questo grigio e anonimo
ammassamento di condomini e fabbricati che è la città russa). Questo paradosso
– che, se ci pare, è la messa in luce di una problematica sociale – è reso non
secondo i metodi dell'altro realismo di cui sopra, ma attraverso la
restituzione della realtà nella sua intera complessità. Il lituano si libera di
tutti quei metodi drammaturgici che la sezionano e riorganizzano al fine di significarla
e semplificare la comprensione dello spettatore (l'impianto narrativo e il
dialogo). Quel che emerge è perciò un flusso di percezioni visive che rimanda
il cinema a uno stadio primitivo e incontaminato, dove lo spettatore non ha
quella passività che gli riserva quasi sempre il cinema narrativo e dialogico –
Trys dienos, nella sua essenzialità, si pone dunque come il limite
(forse) invalicabile del realismo cinematografico.
Raffaele Indri 4^L
Commenti
Posta un commento