di Shani Yael Baldacci 4^I
È
stato Cabaret, nella terza edizione portata in scena dal celebre
Saverio Marconi, a proseguire la stagione Musical del Teatro Giovanni
da Udine il 4, 5 e 6 febbraio 2016.
Una storia immortale
basata sulla commedia “I’m a Camera” di John Van Druten che
aveva ripreso il diario-romanzo “Goodbye to Berlin” di Isherwood,
trasformata poi nel famosissimo film che vede Bob Fosse alla regia e
Liza Minelli nel ruolo principale.
Ambientata nella Berlino
totalitarista e pre hitleriana degli anni ’30, la storia ci
trascina all’interno di un locale, il Kit Kat Club, dove
incontriamo la protagonista, Sally Bowles, interpretata dalla
brillante Giulia Ottonello, un’aspirante attrice che inizia una
relazione con un giovane scrittore americano di nome Cliff Bradshawn,
interpretato da Mauro Simone, mentre sullo sfondo si intrecciano
altre due storie storie d’amore. Il locale rappresenta una sorta di
“safe-zone” dove il traghettatore di anime Giampiero Ingrassia
esorta tutti gli avventori a dimenticarsi dei loro problemi
quotidiani portando alle estreme conseguenze l’idea di “fuga dal
presente”. Alle porte della Germania sta per esplodere la furia
nazista, sotto gli occhi di chi non reagisce convinto che quella sia
la propria realtà, incondizionata, immutabile.
Temi attualissimi, dunque,
quelli portati in scena dalla Compagnia della Rancia, accompagnati
dalle musiche di John Kander e dalle nuove e strepitose coreografie
di Gillian Bruce, unite ad un impianto scenico nudo, in cui sono ben
visibili tutti gli artifici meccanici necessari alle resa della
storia. Lo stesso Marconi sottolinea come questa storia ci esorti a
riflettere sull’incapacità umana di cambiare la propria sorte
trasformandosi “da comparsa ad attore protagonista”.
Tre
i colori preponderanti sulla scena: il rosso del sipario, ma anche
del così detto “furor” che porta all’oblio e alla perdita di
senno; il verde, spesso portato in scena da Sally che rappresenta la
speranza ancora accesa nella sua ingenuità quasi fanciullesca; e il
giallo tendente al marrone delle porte, delle funi, delle valige, dei
cappotti, del vagone immaginario, che rappresenta dunque il tema
della partenza, dell’addio, del “Mazel”, ovvero l’augurio
ebraico di “buona fortuna”, del distacco dal piacere e dalla
libertà.
Proprio attorno a questo
ultimo termine, “libertà”, si è costruita la conferenza stampa,
a cui ho avuto l’immenso onore di partecipare, dal titolo “Sognare
la libertà o lottare per essere liberi?”. Eccezionale spunto di
dibattito e riflessione promosso dal Teatro in collaborazione con
l’Università di Udine e condotto da Giulia Tollis, al quale oltre
all’intera compagnia, hanno partecipato anche il Professore e
psicologo Daniele Fedeli e Mario Turello e Stefano Rizzardi che hanno
curato l’intervento di lettura poetica che ha nobilmente saputo
introdurre l’argomento di discussione.
Molto spesso io stessa mi
sono interrogata su cosa fosse la libertà e da cosa fosse
condizionata, sempre che possa esserlo, e mi aveva colpito
l’interpretazione che Erich Fromm da a riguardo. Secondo l’autore,
infatti, l’uomo crede di volere la libertà, ma in realtà ne ha
una grande paura. Perché? La libertà lo obbliga a prendere delle
decisioni che comportano rischi, mettendolo su un piano di eroe e
allo stesso tempo di vittima del proprio destino. Ed è proprio
questa l’idea emersa dalla lettura fatta da Rizzardi, della poesia
di uno scrittore libanese che vedeva la libertà come un’ipotetica
catena di meta libertà che se rotta diventa la catena di una libertà
più grande che altro non è che una pre-condizione dell’essere
libero, rendendo la stessa libertà una sorta di prigione. Se
analizzata in modo puntiglioso questa riflessione ha molti punti in
comune con il nostro Cabaret a partire dal fatto che se l’uomo
vuole liberarsi da un affanno, deve ricordarsi che l’ha scelto e
non che gli è stato imposto. Emblematica è, infatti, la battuta in
cui Fräulein Schneider, interpretata da Altea Russo, dice che questa
è la sua realtà e che non può cambiarla, lei ha vissuto molte
guerre ed è sopravvissuta, non ha mai cambiato casa ed è
sopravvissuta e quindi per lei l’avvento del nazismo rappresenta
solo un nuovo evento al quale sopravviverà. In questo caso lei
risulta in qualche modo schiava della libertà, in quanto capace di
cambiarla ma troppo abituata a non farlo per poter reagire. Come ci
ha detto Mauro Simone, lei dovrebbe infrangere quella paura che la
tiene ancorata all’abitudine per poter essere libera. Per quanto
riguarda Sally, invece, Giulia Ottonello si esprime dicendo che
l’egocentrismo e l’euforia del personaggio non la portano a
domandarsi se è libera o meno, poiché il suo unico obiettivo è
quello di andare avanti. Sally giungerà fino ad abortire per poter
proseguire la sua vita ricca di capricci e desideri, ma cosciente che
finchè riuscirà ad andare avanti andrà tutto bene. Questa è
un’altra grande illusione di questi personaggi che lungo tutta la
storia sono travolti dall’illusione che tutto possa cambiare in
meglio che porta, ad esempio, alla felicità del fruttivendolo ebreo
di origine tedesca che fino alla fine non accetta di dover
abbandonare la sua terra d’origine per la sola appartenenza alla
religione ebraica.
Ma allora questi
personaggi sono dei vigliacchi? Vogliono a tutti i costi essere dei
prigionieri? In realtà molto spesso, anche nella quotidianità,
siamo oggetto di ruoli che ci sono stati affidati, non da ruoli che
noi stessi ci diamo, da qui il gioco delle maschere ripreso più
volte anche nella letteratura, giungendo al non totale raggiungimento
della compiutezza del nostro io. Non parlerei, dunque, di
vigliaccheria, bensì di passività, assenteismo e ignoranza. Questa
è senza dubbio il movente dei totalitarismi come quello nato alla
porta del Kit Kat Club, come ci dice Fedeli, “i totalitarismi
cambiano l’ordine delle cose e anestetizzano alla violenza”, una
violenza che è organizzata e semplifica il mondo. L’uomo ha
bisogno di chiarezza ed è proprio questo che i movimenti di questo
genere forniscono: come il bambino vuole sempre sapere nel suo gioco
chi sono i buoni e chi i cattivi, i totalitarismi ci dicono che da
una parte sta il bene e dall’altra c’è il male soddisfando i più
emblematici interrogativi.
Altro simbolo che troviamo
nel musical è quello della violenza nelle strade di Berlino che ben
si legano al tema della violenza nelle nostre strade. Ancora oggi il
bullo viene elevato deumanizzando la vittima che, talmente preso
nella parte, si dimentica quasi di essere libero di reagire e
cambiare la spiacevole situazione. Ancora peggiore è l’esempio del
cyberbullismo, citatoci dallo stesso Fedeli. In questa forma di
violenza l’aggressore non vede nemmeno più la sofferenza della
preda che, se sul marciapiede poteva urlare, muoversi e perdere
sangue, ora non puó far altro che auto-assumersi la responsabilità
dell’accaduto e interiorizzare la rabbia facendo emergere i danni
direttamente dalla psiche al fisico.
Per concludere il
Professor Fedeli ha posto la nostra attenzione sul fatto che secondo
lui, non bisogna educare ALLA libertà, ma CON libertà. Infatti
molto spesso gli adulti educano il bambino alla libertà senza, però,
renderlo libero e quindi restringendo le sue possibilità d’azione.
Alla fine della conferenza
ho avuto l’opportunità di porre una domanda all’ensamble dello
spettacolo, composto anche da due dei miei maestri che ho ritrovato
con molto piacere. Vi riporterò la domanda e la risposta datami da
Ilaria Suss a nome di tutto l’ensamble formato da Andrea Verzicco,
Gianluca Pilla, Nadia Scherani, Marta Belloni e dalla stessa Ilaria.
Sono rimasta
profondamente colpita dalle coreografie dello spettacolo che penso
abbiano anche un forte significato intrinseco e un forte impatto
scenico. Come avete vissuto questo momento creativo?
“Beh, il momento
creativo è stato divertente, tolto il momento difficile nel senso
che, giocare in sede d’allestimento con le corde non è stato
facilissimo, a prescindere dal messaggio che voleva trasmettere la
coreografa Gillian di questo essere sempre fuori peso senza avere
un’asse reale. Ogni numero ha un suo significato, ha usato, ad
esempio, i tamburelli vuoti e per i soldi il tintinnio del
tamburello, ma possiamo anche infilarci le braccia dentro, quindi
ricorda l’avidità di quello che è il soldo, che lega e che
compra. Sicuramente io non mi lego solo alle corde come ballerina e
come attrice o quello che è, questo spettacolo ti da di più
innanzitutto perché non devi solo alzare le gambe, anzi, qui non le
alziamo mai. Devi mantenere sempre un personaggio nel senso che, in
questo spettacolo più di tanti altri che ho fatto nella vita, se
ciascuno di noi molla il suo personaggio, crolla la storia. Dal
passettino di danza che si fa ad Emcee (il Maestro di Cerimonie).
Questo è quello che mi sento di dire, e sento molto forte anche il
lavoro di gruppo, nel senso che è molto forte e mi aiuta sempre a
tenere il mio personaggio. Se io, ad esempio, guardo Nadia in scena,
non vedo Nadia, quindi il gioco che c’è in scena tra me e lei è
il gioco tra me ed il suo personaggio, ed è in questo senso un
spettacolo che mi sta dando tanto: ogni sera è diversa, ogni sera ci
sono magari degli imprevisti, la corda che si muove in modo diverso,
il tavolino che oscilla, però la forza dei nostri personaggi ci
permette di essere sempre li presenti”.
Concluderei con un verso
citatoci da Fedeli di una poesia di Pessoa: “ho in me tutti i sogni
del mondo”. Penso che sia emblematico tenere sempre a mente che è
quella la strada da seguire: avere tutti i sogni e ricorrere alla
possiblità di scelta fra questi. Sarà questa possibilità a
renderci liberi.
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