IL MARINELLI A DACHAU-MAUTHAUSEN
Undici ragazzi del nostro liceo hanno avuto il piacere di
partecipare all’annuale pellegrinaggio nei luoghi della Memoria,tenutosi dal 10
al 12 maggio. Grazie all’ANED di Udine (Associazione Nazionale Ex Deportati),
che ha curato l’organizzazione dell’evento, noi ragazzi abbiamo avuto
l’occasione di visitare quei luoghi che apparteranno per sempre ad un passato
crudele e, spero, da non ripetere: i campi di concentramento.
Il primo giorno abbiamo visitato Dachau, il primo campo di
concentramento dell’era Nazista, che venne inaugurato il 22 marzo del 1933
(pochi mesi dopo la presa del potere di Hitler) e ospitò fino al 26 aprile del
’45 circa 60.000 internati. Dachau, in realtà, altro non è che un paesino
sperduto tra le verdi campagne della Baviera. Com’è possibile che in mezzo ad
un simile paradiso naturale l’uomo abbia creato un piccolo, grande inferno?
Solo quando vidi la scritta del cancello principale del campo, "Arbeit
macht frei” che sta per “il lavoro rende liberi”, mi resi conto che le
testimonianze dei superstiti erano vere e incontestabili. Vedere il campo “a
colori” e non più in bianco e nero come nei documentari o nei libri, accentua
le dimensioni di un passato che ancora oggi è preferibilmente negato o dimenticato. Il campo mi parve una
pozza grigia dentro un paesaggio verdissimo, quasi come una goccia di pioggia
acida in mezzo ad un prato rigoglioso. Il contrasto tra il colori grigio e
verde mi diede un forte senso di nausea, grigio era il campo, con la sua piazza
d’appello, gli enormi viali, le baracche; il verde, era il mondo, l’uomo, Dio,
la dignità, il rispetto, la libertà, l’unicità, il passato, il presente, il
futuro e la vita che i prigionieri abbandonarono fuori dal portone d’entrata.
Mi vengono in mente le parole di Antonio, 89 anni, con cui abbiamo avuto il
piacere di condividere quest’esperienza, ex internato di questo campo che lui definisce “il campo della
morte”. Ci ha ricordato emozionandosi che nel campo non esistevano “gli ebrei”
o gli “italiani”, perché tutti i prigionieri, ormai privati della loro
personalità e ridotti ad un numero, venivano
trattati con lo stesso accanimento ingiustificato e ingiustificabile da
parte dei Nazisti. Per questo vorrei che si ponesse l’accento allo sterminio
dei popoli e non solo degli ebrei come si legge nei libri di storia: ricordiamo
che furono eliminati anche milioni di
zingari, omosessuali, asociali, avversari politici e bambini, di cui non si fa
nome. Certo, il genocidio ebraico fu
indubbiamente il più atroce, ma non dimentichiamoci di chi, come i
caduti spagnoli, non vedono nel proprio Paese riconosciuti i crimini di guerra
compiuti durante la dittatura di Franco e, ad oggi, non hanno un solo monumento
che commemori i caduti dei campi.
Il secondo giorno, lasciata la città di Monaco per dirigerci
a Linz, città austriaca vicina al campo di Mauthausen, la guida che ci ha
condotto attraverso gli orrori del campo, ubicato sopra una collina e limitato
da mura di cinta con due torri di controllo davanti all’entrata, ci ha
consegnato una mappa aerea del campo, che apparve veramente enorme. Davanti
all’ingresso, vicino a dove si trovava la baracca per i malati terminali, vi
era, oggi smantellato, un campo da calcio dove la squadra delle SS giocava il
campionato regionale. Solo un reticolato di filo spinato divideva i malati dal
pubblico che assisteva alle partite: ho immaginato gli occhi dei prigionieri
chiedere con sguardo disperato un aiuto che non sarebbe mai arrivato. Perché
a Mauthausen, così come a Dachau, ad
Auschwitz e in tutti gli altri luoghi di sterminio, le parole “pietà” e
“coscienza” non esistevano. A Mauthausen i prigionieri ogni mattina venivano
condotti alla cava di granito, collegata al lager dalla cosiddetta “Scala della
Morte”, una scala ripidissima e pericolosissima. Ogni gradino succedeva presto,
troppo presto al precedente. A causa di questa Scala morirono centinaia di
persone che, vuoi per la carenza di forze, vuoi per gli spintoni o per la
semplice mancanza di equilibrio, caddero nel vuoto.
L’ultimo giorno abbiamo partecipato al sessantottesimo
anniversario della liberazione di Mauthausen, con i rappresentanti di molte
nazioni. È stato un incontro tra i giovani visitatori degli incubi del passato
e gli anziani detentori di una testimonianza che si fa, con gli anni, sempre
più flebile, un incontro di speranza in un luogo che venne creato per
annientarla.
Costruiamo, sopra le ceneri delle persone innocenti che tra
queste campagne lasciarono la vita, la promessa (non l’utopia) di una società
basata sul rispetto reciproco, sul riconoscimento e l’accettazione del diverso
e sulla dignità universale dell’Uomo. Facciamoci portatori di verità, perché,
per quanto banale possa sembrare il male, esso può sempre essere evitato.
Micol Sartori 4^P
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