L’imperfetto
Boyhood costringe tutti a porsi davanti allo specchio
È un film che
non delude, Boyhood di Richard Linklater, sebbene non sia certo il
«capolavoro assoluto» di cui parlano le critiche entusiastiche da tutto il
mondo. Girato in soli 39 giorni nell'arco di dodici anni, Boyhood racconta
il passaggio dall'infanzia all'età adulta di Mason Jr., che potrebbe essere
qualunque ragazzino americano: genitori divorziati, madre che si impelaga
puntualmente in relazioni disfunzionali con uomini meno brillanti di lei, padre
assente ma che quando c'è ti porta al McDonald's, una sorella minore col mito
di Britney Spears. E poi c'è tutto ciò che accade nella vita di questo
protagonista. Trasloca da una città all'altra, perde amici per trovarne altri,
ogni tanto reincontra suo padre, e nel mentre ha scoperto quel gruppo musicale
là. È così che per Mason giunge la prima volta di tutto – il primo bacio, la
prima festa, la prima canna, la prima ubriacatura.
Annunciato come
il capolavoro del decennio, si fatica a comprendere la radicalità dell'opera e
a percepire i limiti del cinema che essa dovrebbe abbattere. Linklater aveva
già affrontato la tematica del tempo nella Before Trilogy, dove due
amanti si incontrano e si ritrovano nell'arco di vent'anni in tre città
diverse: lì però gli sviluppi sono ellittici e in un certo senso lo spettatore
«cresce» coi protagonisti. La volontà di imprimere su pellicola un'esistenza
intera non è certo inedita, però. Nel 2000 usciva il capolavoro di Jonas
Mekas, As I was moving ahead occasionally I saw brief glimpses of beauty,
monumentale flusso di coscienza del regista, che con un collage di frammenti
filmici in 16mm rievocava la sua giovinezza, il matrimonio fallito, la nascita
della figlia, mentre in voice off tentava di esaurire una ricerca di
senso alle proprie immagini.
La magneticità
di Boyhood, comunque, consiste proprio nel rappresentare un'esperienza
cinematografica piuttosto differente dai film cui siamo educati. Qui la
finzione narrativa non teme il tempo in cui deve realizzarsi, tutt'altro, ne è
travolta e ne esce al contempo guastata e impreziosita. Allora non turberà
osservare come, con l'incedere del film, la fotografia incerta e quasi rovinata
delle prime sequenze vada raffinandosi, divenendo via via più brillante e
nitida; osservare il progressivo indurimento dei lineamenti di Mason attesterà
che a Linklater non occorre una sceneggiatura avvincente per raccontare la
crescita di un ragazzino, perché la crescita stessa dell'attore precede quella
del personaggio. Boyhood si fregia delle proprie deformità costitutive,
del proprio essere oppresso dalla temporalità in cui si inscrive.
Tuttavia, se questi pregi possono essere (sensatamente)
ridimensionati a mere ripetizioni di un certo cinema più audace e
avanguardista, se non si può controbattere a chi superbamente rimarca la
convenzionalità dell'opera, una cosa rimane certa: mai si era sperimentato, sul grande schermo, un inventario così ricco e nostalgico
della cultura anni Duemila – dalla première di Harry Potter alla storica
elezione di Obama, spaziando dalle infinite partite col 20Q all'avvento di
Facebook. Vedersi scorrere l'infanzia dinanzi agli occhi.
Raffaele Indri,
4^L
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