Ero il brivido di sentirsi persi.
Scioperare l’esistenza come forma di protesta, anarchismo della forma, rinuncia
al contenuto. Leggevo Camus e mi credevo un assurdo. Un giorno deformai
l'obiettivo della mia macchina fotografica per cercarci il negativo ma era solo
luce, devastazione bianca. In realtà non so neanche come funzioni una
macchina fotografica, non ho praticamente mai neanche avuto tempo per scrivere,
proiettavo immagini che erano il mio tempo che erano il dubbio di voler
ricominciare, mi credevo, qualche volta,
sincero…
E comporre disegni che sembravano
dettati celesti di un dio minore, versi sacri di amori profani, a volte a
spingersi fino al muro più alto, solcare i palazzi, lasciarsi cadere. Chiedevo
solo amore. Un’estrema sintassi, il vomito grigio di cui spesso parlo, leggere
Alberto Dubito ad alta voce e rimanere spaesati, non sapersi più capire. La
maschera di cui si nutrono le città, i miei abiti di provincia e i miei versi
senza rima, le lunghe attese per i concerti e prose infinite per spiegare al
mondo che non ero pazzo, ero solo, a volte, felice…
Ero il silenzio di quegli anni,
le sigarette fumate in gruppo con gli amici e poi quei pomeriggi malinconici in
castello a stendere le nostre anime per chilometri e chilometri, cantieri in
costruzione e lontani disastri, antiche catastrofi, lo spettro di una crisi che
non sapevamo quantificare ma che sembrava detestarci tutti, spiagge sfinite
dall’arenarsi di detriti e le carcasse, chi se ne andò in Francia, chi
semplicemente si lasciò…
E i nostri progetti per un futuro
in cui non sapevamo vederci, le nostre idee di fare i camerieri fino alla
pensione e chi già pensava di non fare l’università, chi si iscriveva a lettere
pensando alle ragazze e chi scienze politiche perché tanto era tutto uguale,
Luca che mi diceva che finito tutto sarebbe andato in un monastero zen e poi
quel precario senso d’esistere nonostante tutto.
E ora vorrei solo tentare una
parafrasi incompleta di che cosa siano stati tutti questi anni per me, questa
giovinezza che dovessi descriverla parlerei delle luci soffuse dei tramonti
invernali e di quelle mattine gelide in Centro Studi a Udine a cercare di
scaldarsi con le parole dolci e gli abbracci mentre la gente lenta cominciava ad
affollare i marciapiedi, l’imbarazzo di stare seduti a un tavolo di estranei
ridendo con loro, aspettando soltanto che venisse portato da bere, guardandosi
intorno in cerca di una via di fuga, desiderando solamente di alzarsi e
andarsene via. Lo so che è scontato ma davvero si stava come foglie cadenti nei
cieli d’ottobre.
Vorrei solo provare a raccontare
con la mia calligrafia da bambino che cosa mi è rimasto di questi cinque anni,
di questa mia strana giovinezza, le
persone, gli amici, Silvia che un giorno decise di sentirsi diversa da tutti
gli altri e semplicemente si lasciò andare nella sua tenerezza con un carrello
attraverso le vie grigie di una periferia stanca, Chiara che una sera mi
accolse quando stavo male e mi fece sentire a casa suonandomi waltzer
malinconici al pianoforte e poi Nicola, l’ottuagenario più giovane del mondo,
ed Elias con la sua serietà che gli ho sempre invidiato, Roberta a cui vorrei
solo chiedere scusa perché alla fine non ce l’abbiamo fatta a fregare il tempo
danzando, tutti i miei compagni di classe perché hanno avuto la pazienza di
sopportarmi, Raffaele, un vero amico, Alex e i nostri litigi così dolci e senza
motivo, Eleonora, la mia amicissima che mai si è stancata di ascoltarmi e poi
Luca, i nostri concerti e i viaggi che faremo, Riccardo e i suoi quadernetti
che ormai sono la mia vita, Tommaso che tanto alla fine la tragedia non la
metteremo mai in scena e Friz, giovane saggio pazzo barbuto geniale, Savo e
Alessio e le nostre assemblee passate a sciare e a prenderci in giro e infine lei,
le nostre crisi che ci raccontavamo via messaggio, la Grecia, il nostro essere
rimasti buoni amici comunque e poi il sorriso così inesprimibile di una ragazza
che un giorno mi disse di essersi riscoperta fragile leggendo Pasolini e una
settimana dopo mi spezzo il cuore, la stessa ragazza a cui voglio ancora bene
nonostante tutto e la cui poesia che mi scrisse su di una cartina di caramelle
ancora conservo con affetto nel mio taccuino; e ancora chi mi portava gli
ovetti kinder il giorno del compleanno e anche tutti gli altri, quelli il cui sorriso non comparve mai, tutte quelle persone
che sicuramente ho dimenticato ma tanto lo sapete che non lo faccio apposta,
sono solo molto distratto, tutti quei tramonti insanguinati, cieli di lamiera
ruggine di cui non saprei neanche parlarvi e quelle notti, tutte quelle notti
seduto in un tavolino di un bar a scrive poesie sui tovaglioli ignorando tutto,
persino la punteggiatura,tentativi malriusciti di prosa spontanea, lettere
d’amore scritte al computer, una tragedia e quindici maledetti inizi di un
romanzo che non credo riuscirò mai a finire, che non avrà neppure una storia,
parlerà soltanto dei disertori, di chi se ne infischia di chi vincerà la
guerra, di cose che accadono qui ogni tanto, quando meno te l’aspetti, come
quelle persone che incontri una volta e non le dimentichi più, come rendersi
conto senza motivo di essere ancora capaci di sentirsi innamorati, quelle
persone come noi, come voi, come tutti quegli amici che non potrò scordare, che
mi sono rimasti a fianco al di là di come li ho trattati… grazie, vi voglio
bene…
A volte
verrebbe da chiedersi se una fine abbia realmente in se più violenza di un
inizio, se non siano entrambi turbamenti di un equilibrio statico, di una
maniera di essere acquisita delle cose. Guardare un istante che appare così
lontano e poi ritrovarselo così, di colpo, davanti agli occhi, qualcosa per cui
no sei ancora pronto anche se ti rendi conto che probabilmente non lo saresti
mai stato.
Carlo Selan 5^E
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