Un'azione di protesta del movimento Occupy Wall Street |
Il
problema della disuguaglianza economica è recentemente tornato al centro
dell’attenzione. Lo era sempre stato sin dagli albori del capitalismo, dalle
tesi di Marx sino alle proteste del 1968, ma un periodo di crescita un po’ più
armoniosa nel secondo dopoguerra sembrava dimostrare che il capitalismo, con il
tempo, potesse porre rimedio alle bruttezze che aveva generato. La realtà è che
lo sviluppo del 1900 è stato alquanto anomalo. Due guerre mondiali hanno
totalmente sconvolto l’economia, tramite una distruzione incontrastata tanto
dei patrimoni immobiliari, tra un bombardamento e l’altro, quanto dei patrimoni
finanziari, ridotti da dissesti e debiti vari. Per finanziare la ricostruzione
del dopoguerra, i governi europei furono costretti a prendere decisioni
coraggiose, tasse straordinarie e molto pesanti sui capitali più ingenti per
ridurre immediatamente il debito pubblico, e poi tasse progressive e durature nel
tempo per poter finanziare la ricrescita e garantire per la prima volta una
vasta serie di servizi per i cittadini. L’azione congiunta di due guerre
mondiali, la terribile crisi finanziaria del 1929 e delle politiche
progressiste hanno quindi permesso al capitalismo di generare crescita e
ricchezza riducendo allo stesso tempo le eccessive accumulazioni di denaro che
ne conseguono quasi inevitabilmente.
Tuttavia, un’economia sempre più globalizzata, caratterizzata da capitali che si muovono senza controllo tra un continente all’altro, delle politiche estremamente liberiste e una relativa stabilità ha negli ultimi vent’anni creato nuovamente l’ambiente ideale per la proliferazione dei capitali più ingenti, in Europa e ancor di più in America, paese che ha concluso le guerre da vincitrice e non ha quindi mai visto i suoi capitali ridursi. E proprio qui, nel paese a stelle a strisce che una volta era la terra delle opportunità, la disuguaglianza economica mostra una delle sue facce peggiori. Il 10% più ricco degli Stati Uniti possiede circa tre quarti dell’intera ricchezza del paese, e i dirigenti delle aziende più importanti ricevono paghe stratosferiche. Tra le altre cose, la mancanza di una copertura sanitaria pubblica crea grandi differenze tra cittadino e cittadino, Baltimora ospita il “Johns Hopkins Hospital” uno dei più prestigiosi al mondo, eppure nei sobborghi più disagiati della città si registrano mortalità infantili quasi da terzo mondo. Non stupisce allora che le tensioni sociali sfocino spesso in conflitti tra persone povere (spesso afroamericani) e polizia, come è successo a Ferguson. Era solo questione di tempo prima che una tale situazione, ulteriormente peggiorata dalla crisi del 2008, provocasse scalpore in un paese costruito sul “Sogno americano” sull’idea che con il duro lavoro si possa raggiungere il successo qualsiasi la provenienza, un po’ come avveniva realmente nella società dei pionieri.
Nella nostra vecchia Europa la situazione non è così drastica, e un solido welfare garantisce istruzione e sanità pubblica nella gran parte degli stati (anche se di qualità non sempre ottimale) evitando gli scontri verbali e fisici che avvengono oltreoceano. Tuttavia, per sua stessa costruzione, se non verrà disciplinato, il capitalismo porterà alla lunga ad una situazione analoga a quella americana, con percentuali del reddito totale sempre maggiori concentrate nelle mani di pochi fortunati. Davanti a questo inquietante scenario, economisti quali Thomas Piketty, autore di Il Capitale nel XXI secolo propongono una soluzione drastica: un’imposta progressiva globale sul capitale. Difficilmente però si riuscirebbe ad adottare una simile risoluzione a livello globale, e assumerla solo a livello di una nazione non riuscirebbe ad ottenere i risultati ricercati; piuttosto che vedere il suo capitale decurtato un miliardario sceglierebbe semplicemente di trasferirlo in un altro paese, magari in uno dei tanti paradisi fiscali. Una maggiore trasparenza fiscale sarebbe insomma il primo passo per ridurre il problema della disuguaglianza, e per questo i patti di “fine segreto bancario” che il governo italiano ha recentemente stipulato con Svizzera, Liechtenstein e Principato di Monaco fanno ben sperare.
Se la situazione è così grave quanto viene descritta e ricorda inquietantemente i livelli di concentrazione dell’Europa ottocentesca, perché non scoppia alcuna rivoluzione, perché la gente sembra poco sensibile rispetto a questa problematica? La disuguaglianza ha trovato nel XXI secolo una giustificazione che mai prima aveva avuto nella storia: la meritocrazia. Questo è il valore che legittima tutto l’assetto sociale, l’idea che chi lavora o studia di più, chi ha l’idea migliore, abbia diritto ad un maggiore compenso e a un miglior status sociale: alle discrepanze tra i redditi corrisponderebbero, insomma, delle discrepanze di merito. Se la meritocrazia resta però un’ideale senza realizzazioni concrete, se la mobilità sociale diventa una favola, non c’è nulla che possa tenere il sistema in piedi quando gli anni passano e i capitali si accumulano. E’ bene quindi affrontare il problema della disuguaglianza ora, quando è ancora relativamente poco appariscente, prima che sfugga di mano e porti ad aspri conflitti o a soluzioni estreme che già in passato si sono dimostrate fallimentari.
Tuttavia, un’economia sempre più globalizzata, caratterizzata da capitali che si muovono senza controllo tra un continente all’altro, delle politiche estremamente liberiste e una relativa stabilità ha negli ultimi vent’anni creato nuovamente l’ambiente ideale per la proliferazione dei capitali più ingenti, in Europa e ancor di più in America, paese che ha concluso le guerre da vincitrice e non ha quindi mai visto i suoi capitali ridursi. E proprio qui, nel paese a stelle a strisce che una volta era la terra delle opportunità, la disuguaglianza economica mostra una delle sue facce peggiori. Il 10% più ricco degli Stati Uniti possiede circa tre quarti dell’intera ricchezza del paese, e i dirigenti delle aziende più importanti ricevono paghe stratosferiche. Tra le altre cose, la mancanza di una copertura sanitaria pubblica crea grandi differenze tra cittadino e cittadino, Baltimora ospita il “Johns Hopkins Hospital” uno dei più prestigiosi al mondo, eppure nei sobborghi più disagiati della città si registrano mortalità infantili quasi da terzo mondo. Non stupisce allora che le tensioni sociali sfocino spesso in conflitti tra persone povere (spesso afroamericani) e polizia, come è successo a Ferguson. Era solo questione di tempo prima che una tale situazione, ulteriormente peggiorata dalla crisi del 2008, provocasse scalpore in un paese costruito sul “Sogno americano” sull’idea che con il duro lavoro si possa raggiungere il successo qualsiasi la provenienza, un po’ come avveniva realmente nella società dei pionieri.
Nella nostra vecchia Europa la situazione non è così drastica, e un solido welfare garantisce istruzione e sanità pubblica nella gran parte degli stati (anche se di qualità non sempre ottimale) evitando gli scontri verbali e fisici che avvengono oltreoceano. Tuttavia, per sua stessa costruzione, se non verrà disciplinato, il capitalismo porterà alla lunga ad una situazione analoga a quella americana, con percentuali del reddito totale sempre maggiori concentrate nelle mani di pochi fortunati. Davanti a questo inquietante scenario, economisti quali Thomas Piketty, autore di Il Capitale nel XXI secolo propongono una soluzione drastica: un’imposta progressiva globale sul capitale. Difficilmente però si riuscirebbe ad adottare una simile risoluzione a livello globale, e assumerla solo a livello di una nazione non riuscirebbe ad ottenere i risultati ricercati; piuttosto che vedere il suo capitale decurtato un miliardario sceglierebbe semplicemente di trasferirlo in un altro paese, magari in uno dei tanti paradisi fiscali. Una maggiore trasparenza fiscale sarebbe insomma il primo passo per ridurre il problema della disuguaglianza, e per questo i patti di “fine segreto bancario” che il governo italiano ha recentemente stipulato con Svizzera, Liechtenstein e Principato di Monaco fanno ben sperare.
Se la situazione è così grave quanto viene descritta e ricorda inquietantemente i livelli di concentrazione dell’Europa ottocentesca, perché non scoppia alcuna rivoluzione, perché la gente sembra poco sensibile rispetto a questa problematica? La disuguaglianza ha trovato nel XXI secolo una giustificazione che mai prima aveva avuto nella storia: la meritocrazia. Questo è il valore che legittima tutto l’assetto sociale, l’idea che chi lavora o studia di più, chi ha l’idea migliore, abbia diritto ad un maggiore compenso e a un miglior status sociale: alle discrepanze tra i redditi corrisponderebbero, insomma, delle discrepanze di merito. Se la meritocrazia resta però un’ideale senza realizzazioni concrete, se la mobilità sociale diventa una favola, non c’è nulla che possa tenere il sistema in piedi quando gli anni passano e i capitali si accumulano. E’ bene quindi affrontare il problema della disuguaglianza ora, quando è ancora relativamente poco appariscente, prima che sfugga di mano e porti ad aspri conflitti o a soluzioni estreme che già in passato si sono dimostrate fallimentari.
Elias
Ngombwa 5^I
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