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A Parigi ha vinto lo spettro del terrore


Non c'è atto più vile che quello dell'attentato. Ma se agiscono così, un motivo ci sarà.


Luca Picotti 5^H
Introduzione di Raffaele Indri 5^L
 



Il video più inquietante prodotto e distribuito dallo Stato islamico è forse quello in cui un ragazzino siriano – avrà sì e no dodici anni – impugna una .22 e scarica una decina di colpi su una presunta spia del Mossad. Si volesse analizzare come la struttura formale dei video che mostrano le esecuzioni dell'ISIS sia andata evolvendo nel tempo (dal primo caso ampiamente descritto dai media, quello del fotoreporter statunitense James Foley), indubbiamente affascinerebbe il progressivo raffinamento delle tecniche volte a colpire l'immaginario occidentale cui il gruppo si rivolge. L'atto dell'assassinio diviene via via più esplicito e la post-produzione assume un ruolo sempre più centrale: l'applicazione di filtri cromatici si intensifica, si assiste all'introduzione di slow motion, split screen e sovrimpressioni. Possiamo verosimilmente affermare che con gli attentati terroristici di Parigi l'ISIS tenti di radicalizzare quanti più musulmani non effettivamente integrati nel tessuto culturale del paese in cui vivono, quelli delle banlieues parigine per intenderci, offrendo loro, come sottolinea Scott Atran, un'alternativa alla mancanza di prospettive idealistiche delle democrazie liberali, che gli emarginati guardano come manifest
azioni di uno stanco nichilismo. La via che li ammalia è quella intrisa di gloria e morte della jihad. Ciò al contempo genera apparenti argomenti alle destre xenofobo-nazionaliste e spinge addirittura lo Stato francese – che certo non desidera concedere un sol passo a un'ipotetica propria delaicizzazione – a consacrare l'offesa religiosa (che è perfettamente accettabile da un occidentale di fede). Ma cosa pensare dinanzi a una serie di video che posseggono più continuità col promo di un first-person shooter o di un film di guerra, piuttosto che con una blanda promozione, volta ai reietti di cui sopra, della guerra santa? Il mondo videoludico aveva già suscitato una profonda attrazione nel nucleo informatico del gruppo terroristico nell'ottobre 2014, quando esso aveva prodotto il trailer di una mod per GTA (cioè la versione modificata di una celebre serie di videogame in cui si interpreta un criminale) dove il protagonista si fa esplodere al grido «Allah è grande». Qui si configura con chiarezza la struttura di un atto propagandistico – la dissoluzione del reale nel virtuale è necessaria per deumanizzare il nemico. Ciò che rende possibile la disinvolta diffusione di questi video (come della serie di esecuzioni) è il legame ambiguo che si instaura, all'interno delle strutture mediatiche occidentali, tra informazione e intrattenimento: esiste un preciso momento in cui i canali che desiderano assolvere il proprio compito di diffondere una news trapassano nel farsi strumento di un'organizzazione terroristica che produce costosi trailer per videogiochi in cui l'avversario è reale? Si assiste dunque, convinti erroneamente di star accrescendo il proprio complesso di conoscenze geopolitiche, a un denso ed elaborato teaser di un futuro conflitto internazionale. Crediamo sia interessante notare come la serie di esecuzioni sia un compendio di variazioni sullo stesso tema, poco meno di un déjà-vu. Il set, la struttura narrativa e la modalità di omicidio sono ben poco mutate. È una sequela di trailer formalmente ineccepibili cui manca però un aspetto primario: la data di uscita del film, cioè il conflitto fisico, reale. L'apocalisse jihadista esiste soltanto nella forma, nella reiterazione ossessiva di presagi che rimandano a un futuro indefinito. Un raggiro così sofisticato non può che emergere da un'affinità profonda con la grammatica cinematografica occidentale – è perciò corretto credere che la contrapposizione culturale cui stiamo assistendo (che pensiamo così invasiva e individuante due mondi alieni l'uno dall'altro) dovrebbe essere quantomeno discussa: sarebbe ingenuo ritenere che la “prossimità linguistica” che marca il rapporto tra ISIS e occidente sia esclusivamente una necessità imitativa.

Un fotogramma di un video dello Stato Islamico





L'aspetto mediatico e propagandistico è uno dei punti fondamentali alla base dello scontro psicologico tra il sedicente Stato Islamico e l'Occidente.
Dire psicologico sembrerebbe quasi sminuire le atrocità del conflitto, ma credo sia forse il modo più appropriato per descrivere la strategia dei jihadisti, che alla guerra aperta preferiscono una guerra fantasma e asimmetrica. Per questo motivo siamo partiti da un concetto teoricamente secondario che invece, come vedremo, si rivelerà di primaria importanza: l'estetica dei video, che è sempre riuscita a infondere terrore nel mondo occidentale per i suoi stomachevoli contenuti. Accecati dalla paura, non abbiamo la lucidità per comprendere che già questa contraddizione di base ( il sedicente Califfo che sposa le tecniche della nostra tv) sia una delle tante fragilità dell'Isis.
“Ora l'apparenza non solo basta, ma è la sola cosa che basti, ed è necessaria e la sola necessaria. Perroché la sostanza senza l'apparenza non fa effetto alcuno e nulla ottiene, e l'apparenza colla sostanza non fa né ottiene niente di più che senza essa: onde si vede la sostanza essere inutile, e il tutto stare nella sola apparenza.” (Zibaldone 1. Giugno. 1824.).
Dubito che lo pseudo-Califfo abbia letto Leopardi, ma che sia la mera rappresentazione di questa riflessione sono più che sicuro. I terroristi hanno bisogno dei video propagandistici per ostentare la loro potenza, per creare attorno a sé un'idealizzazione in negativo; l'arma più forte per raggiungere questo scopo è l'attentato: colpisce vilmente i nemici in casa loro, dissemina panico e scalfisce gli ormai non più solidi valori.
La guerra aperta è inconcepibile per i jihadisti proprio perché, nonostante i cospicui finanziamenti dei sauditi e dei turchi, i loro mezzi bellici e il loro esercito ( che si aggira circa sui 35000 uomini) non sono di certo una grande potenza in grado di affrontare l'Occidente. Possiamo già da qui percepire come l'Isis mostri alcune anomalie. Considerando lo scontro tra la nostra civiltà e questi folli fondamentalisti come uno scontro d'identità, questa guerra fantasma simboleggia una prima debolezza oggettiva dei terroristi, i quali sono costretti ad agire partendo non dai propri valori ( ammesso e non concesso che ne abbiano) ma dalla nostra organizzazione bellica. Sono così obbligati a rimandare ad un futuro indefinito questo scontro aperto e apocalittico che tanto auspicano, affidandosi invece agli attentati, pura apparenza che nasconde la sostanza.

L'attentato diventa così un'operazione interamente estetica (come i video), con risultati formidabili. L'onda xenofoba che ne consegue, alimentata dalle destre nazionaliste, è l'obiettivo dei terroristi, che strumentalizzano la nostra reazione emotiva per radicalizzare altri musulmani europei i quali, già poco inseriti nella società, si sentono circondati dall'odio nei loro confronti e vedono nell'estremo Islam l'unica via di fuga. Il razzismo diventa quindi un'altra piccola vittoria del sedicente Califfo, che brinda ogniqualvolta venga citata la Fallaci, ad esempio.

Non possiamo noi occidentali basare la nostra integrità, la nostra identità, sull'islamfobia. Sarebbe come rinnegare i nostri valori, la nostra democrazia, e passare dall'identificarci in essi all'identificarci in “coloro che odiano l'islam”.

La nostra forza deve basarsi su un'identità che non si fondi “sull'altro”, su ciò che è diverso da noi. Risaltare le differenze culturali con disprezzo, senza invece concepirle come frutto di un processo storico, mi ricorda il modo in cui Tacito considerava gli ebrei: “ Profano è per loro tutto quello che è sacro per noi e quanto è per noi impuro per loro è lecito”. Non possiamo agire così ingenuamente.
In questo complesso scontro psicologico, così intriso di contraddizioni che tentare di comprenderlo sembra quasi vano, abbiamo due possibilità: la prima è abbandonarci all'impulso emotivo, affidando al nemico ogni nostra azione, inglobando a priori nell'odio anche gli islamici moderati e mettendo da parte i diritti e le libertà che un tempo conquistammo.
La seconda possibilità è quella di rimanere integri nei nostri valori, alleandoci con gli islamici moderati, perché solo gli islamici possono estirpare questo loro demone interno, non noi.
Si deve dialogare con tutti gli stati coinvolti, dalla Russia all'Iran, dalla Turchia all'Arabia Saudita, per poter così trovare una coalizione internazionale in grado di sconfiggere in loco l'Isis; perché ormai un intervento armato sembra inevitabile, ma credo nessuno voglia ripetere gli errori della campagna bellica in Afghanistan e Iraq. Non può quindi agire la Francia da sola o la Russia, ma neanche l'intera Europa, perché si tornerebbe all'“invasione occidentale” da sempre malvista dal mondo islamico. C'è l'Egitto, che con Al-Sisi al governo potrebbe essere un possibile interlocutore. Necessario è inoltre il dialogo con l'Iran sciita e con Putin (mettendo da parte le sanzioni per la Crimea). Solo così, con questa lega per la pace, nonostante il binomio Russia-pace sembri molto un ossimoro, si può escogitare un piano per l'immediato, ma soprattutto per il futuro di questi paesi.

Per agire in questo modo dobbiamo innanzitutto comprendere che non è uno scontro tra titani, ma tra una civiltà ormai imputridita nella sua pigrizia che può e deve ritrovare i suoi valori e un gruppo di fanatici che hanno bisogno di noi per definire la loro identità, che si affidano alle nostre tecniche cinematografiche per ammaliare i musulmani occidentali, che per vincere questa guerra hanno bisogno di essere come noi, contraddicendo quel loro stile di vita estremista e quasi medioevale al quale in fin dei conti non credono più di tanto. Qui mi appello a Zizek, Givone e tutti i filosofi che hanno trovato una sorta di nichilismo mascherato insito nella loro natura. Se la loro fede fosse solida e inattaccabile sarebbero totalmente indifferenti nei nostri confronti, come il buddista quando incontra l'edonista occidentale. Invece si sentono aggrediti dal nostro stile di vita, perché il loro Dio non è un'essenza spirituale, ma una forzata ideologia nazi-fascista, incapace di appagare l'animo. Il loro nichilismo consiste in un paradossale “se Dio esiste, tutto è lecito”; utilizzando la loro fede come feticcio, che gli consente di considerarsi a priori moralmente corretti, ogni loro azione è quindi giustificabile. Inevitabile è perciò l'anarchia interna dei terroristi che, alieni da limiti morali, agiscono secondo il loro istinto animale. Unite queste due cose (l'invidia nei nostri confronti e l'anarchia interna), risulta evidente come la loro fede sia fragile, anzi, inesistente. Quando parlano, questi fondamentalisti sembrano degli automi, apatici, che recitano a memoria ciò per cui sono stati addestrati; non c'è vita in loro, non c'è nulla.
L'Isis è estetica, apparenza. Se nello scontro di sguardi incrociamo i loro occhi, capiamo che non vi è sostanza. Capiamo che hanno paura di rimanere soli, accerchiati dall'alleanza tra Islam e Cristianesimo, tra Occidente e Oriente.
Capiamo che dopotutto questo nemico non è poi così imbattibile.

Place del la Republique a Parigi il giorno dopo gli attacchi del 13 novembre 2015

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