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Giovinezza


di Luca Picotti 5^H

Non è facile scrivere ora, giunto alla fine dei miei 5 anni di liceo, qualcosa di sensato senza perdermi in una retorica sentimentale che, per quanto inevitabile, potrebbe risultare pesante. E' impossibile costruire razionalmente un discorso tante sono le emozioni contrastanti, contraddittorie. Liberi viaggiano per la mente frammenti, istanti, sguardi. E' una giovinezza che mi scorre davanti, un mondo che ha deciso di salutarmi, forse troppo presto. Vorrei mi fosse concesso qualche altro momento, qualche attimo per rivivere ciò che ormai se ne è andato. Con malinconia riguardo qualche foto, la spensieratezza dei 16 anni, la consapevole immaturità dei 18. Vedo amici intorno, le esperienze passate, vedo la nostra innocenza. Che ne sarà di noi? Tutto quello che abbiamo costruito, la nostra intera giovinezza, i nostri anni, forse, più belli. Anni di cazzate, di scelte sbagliate, di errori. Il futuro appariva così lontano, quasi un miraggio; si viveva con leggerezza, era tutto ancora possibile, tutto da fare. Ora siamo chiamati ad una scelta, quasi definitiva, sulla nostra strada da percorrere. Una vita nuova, che porta inesorabilmente a guardare con nostalgia a questi 5 anni.
Era l'odore di una classe, le sedie rovinate, le spintonate per l'ultima fila. La disposizione strategica dei banchi per una verifica, lo sguardo basso durante la scelta degli interrogandi, l'ansia di aver sempre dimenticato qualcosa. Erano le risate dopo aver letto la consegna di un esercizio di matematica impossibile, la foto ricordo di una verifica tutta rossa, le patetiche perifrasi per aggirare una domanda in un'interrogazione. Non c'era giorno con la coscienza pulita, i sensi di colpa ci accompagnavano mano per mano, soprattutto i pomeriggi: pomeriggi persi, iniziati con il libro aperto ad una pagina e finiti con il libro aperto alla stessa pagina. Era la legge del fai domani quello che puoi fare oggi, era l'intolleranza verso i compiti per casa, l'anarchia più totale. Una disorganizzazione quasi straordinaria, accompagnata da un sorriso ironico e immaturo.
Ricordo le ore in classe, i corridoi, il giardino. Un cellulare o un libro sotto il banco per far passare alcune lezioni infinite, le risate col compagno di banco, le continue battutine che solo un 18enne può fare.
Era l'interrogazione a sorpresa, il presentarsi a scuola completamente impreparati. Erano le occhiaie e la stanchezza, il rumore della sveglia al mattino, l'ansia costante. Le entrate alle 10 e le uscite alle 11, lo slalom per schivare le interrogazioni, la biblioteca mattutina.
Ma era anche il fascino di una nuova materia, l'emergere delle passioni, degli interessi. Era il silenzio di una lezione, il piacere dello studiare, dell'approfondire. Era la voglia di parlare, di dire la propria. Non solo uno stupido senso di ribellione adolescenziale, ma l'inizio di un pensiero critico, la comprensione -o almeno così pareva- di se stessi. Era la soddisfazione di un bel voto, era il dialogo irrinunciabile con i professori. Era il continuo paradosso, la voglia e la non voglia di svegliarsi la mattina per andare a scuola. Era l'amore per una materia e l'odio per un'altra, l'immaturo menefreghismo della consegna in bianco e lo studio matto per superare se stessi. Erano il 4 e il 9 che si sposavano, era l'innocenza dell'errare e del rimediare.
Era la gita di quinta, quel senso di libertà e di leggerezza, la lontananza da tutto, le notti bianche, i festeggiamenti, l'irripetibile emozione di condividere un viaggio con i compagni di classe e i professori.
Era la vita liceale: il vino, l'allegria, le sigarette in compagnia, le letture. Era la macchina che ingenua sfrecciava, i finestrini abbassati e la musica al massimo volume, un gruppo di amici che canta, liberamente, senza pensieri. Erano i discorsi metafisici fino all'una di notte, le chiaccherate. Erano i volti, sempre quelli, che giravano per una città ormai conosciuta, era lo stesso bar, la stessa via, il “solito”.
Erano le feste del sabato, la playlist fissa di canzoni stupide, i balletti antiestetici in cerchio. Erano amici e conoscenti, persone viste e riviste, tutti intenti a godersi appieno ogni goccia di giovinezza, muovendosi, ballando, urlando. Era infine un abbraccio di gruppo, una canzone da cantare tutti assieme, un momento mistico e indimenticabile.
Come sempre, per quanto scontato, era il solito Venditti. Il silenzio di una stanza buia, ognuno perso nei suoi pensieri, e quella canzone di sottofondo. Il nodo alla gola, i brividi, la commozione mascherata da un sorriso amaro. Erano gli occhi degli amici, il valore di un legame solido, costruito forse troppo tardi, oppure così presto da non poter permettere al tempo di portarlo via. Era la triste consapevolezza che le strade si sarebbero separate, che nulla sarebbe rimasto uguale. Era la struggente malinconia, i dolci ricordi. E la paura per un futuro indefinito, la paura di perdere le amicizie costruite, la vita vissuta. La paura di oltrepassare troppo presto quella fase della vita che è la giovinezza, il liceo.
Era lo sguardo malinconico degli ultimi giorni di scuola, l'ultima interrogazione della vita, l'ultimo compito in classe, l'ultima ricreazione, l'ultima marina.
Era la giovinezza..

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