Apriamo con la fine, iniziamo con
la morte. Le luci accese, qualcuno grida, un uomo cade, tutto tace. Dov’è la
finzione? Qual è il confine? Ma procediamo con ordine, immaginiamo un orchestra
di 47 elementi coordinati fra loro,
canti e controcanti, imbeccate, fughe, violini. si potrebbe quasi
parlare di meta teatro, di una realtà che guarda un'altra realtà fittizia la
quale osserva un’ulteriore rappresentazione scenica. Se non fosse che di mezzo
ci sono due linguaggi nemici dichiarati, il teatro e la televisione, che si
squadrano malevoli e innamorati, se non fosse che l’Avaro di Molière è un testo
strano, una commedia che sembra un po’un dramma, che ricorda un’autobiografia o
qualcosa di già sentito, di già vissuto dallo spettatore.
Sfrontatezza, il coraggio di
essere giovani, di essere tanti ma di essere un gruppo che non ha paura di
farsi avanti, di ribaltare la tradizione. C’è una legge non scritta nel teatro
che dice che la morte sul palco è dappertutto tranne che in scena, non si
rappresenta, si tace dietro il sipario, si lascia intuire. Shakespeare era un
maestro in questo, Molière invece, Molière invece era… Ma alla fine ciò che nel
passato è stato fatto non ha importanza, gli autori vanno riletti,
reinterpretati. Stupire, l’originalità è la chiave, un finale che non ti
aspetti, il rintocco di una campana nell’istante esatto tra il divertimento e
la ripetizione, tra una trovata geniale e il suo diventare lentamente scontata.
E poco importa alla fine se alcuni attori alle prime armi erano
giustificatamente inesperti e un po’impacciati,
non ha importanza se altri invece sul palco sembravano esserci nati e
cresciuti, alla fine è risaltato l’insieme, una magnifica overture carica di
una tensione stroncata sul nascere, abortita prima che potesse distendersi,
dare forma ad un finale che probabilmente sarebbe stato banale. Un esecuzione
forse in alcuni punti quasi improvvisata ma di certo ben studiata, attenta ai
dettagli, capace di coinvolgere il pubblico in maniera diretta, di farlo
sussultare e nel contempo rimanere impietrito. Un applauso meritato quindi per
questi attori e per chi è riuscito a fare di loro una vera compagnia di teatro
degna di questo nome, a questi ragazzi che sono riusciti a fare della realtà la
più grande finzione, a dare all’atto del morire un volto scenico inaudito e
toccante, a rendere una pièce teatrale un’esegesi della vita di un uomo
qualunque che in realtà era un attore che in realtà era Molière che in realtà
era mille sguardi e volti diversi.
Riuscire a raccontare
un’esistenza seppur interessante in maniera divertente e ironica, riuscire a
dare vita ai dolori di chi il testo originale di questo spettacolo lo scrisse
non è cosa da poco. Riuscire a farlo in 47 persone senza far risultare la
rappresentazione confusionaria e debole è davvero difficile. Se per certi versi
ci si sarebbe potuti aspettare il disastro quello che si è visto è stato un
fiore, l’ordine capace di dare forma al caos, la grinta dei ragazzi più giovani
aiutati dall’esperienza dei membri più anziani.
Perciò davvero se alla fine si
dovesse stabilire un vincitore in questo grande gioco che è il teatro di certo
sarebbero loro, tutti i ragazzi di quella grande e strana compagnia che sono i
Mattiammazzo, le loro emozioni e la loro bravura, la loro gioia e la loro
perseveranza.
E se Molière morì sul palco,
laddove aveva sempre vissuto, dove si sentiva a casa davvero si può dire che
sia morto fingendo o ha ragione chi dice che il vero attore è onesto soltanto
sul palco? E comunque sia di chi si può realmente dire che non sia morto
fingendo?
Carlo Selan 5^E
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