Francesca Sartori 5^F
Sono
i racconti, le storie vere e le testimonianze dirette ad insegnarci
le cose che sono successe prima della nostra nascita. La nostra
famiglia e i nostri antenati possono narrare affascinanti storie, che
sembrano distanti, eppure fanno parte di noi. Anche a me, come a gran
parte di voi, è stata raccontata una bellissima storia.
Giuseppe
Sartori, fratello del mio bisnonno, è nato a Venezia nel 1896 ed è
morto a Venezia nel 1996. Ha combattuto durante la prima Guerra
Mondiale sul fronte italiano, è stato fatto prigioniero dai tedeschi
e deportato in un campo di lavoro in Germania. Ha raccontato il suo
vissuto in un’intervista, tutt’ora conservata in un museo al Lido
di Venezia, la cui copia originale era su uno scaffale della mia
cantina.
Nel
momento in cui ha iniziato a narrare la sua storia, la sua mente ha
rivissuto per qualche ora quel tempo lontano, e lentamente tanti
dettagli dimenticati sono tornati alla sua memoria, come se non si
fossero mai cancellati.
Che
cosa è successo nel novembre del 1915?
Nel
novembre del 1915 sono stato chiamato alle armi. Ho fatto
l’istruzione a Treviso, e due mesi dopo siamo partiti per prendere
parte alla presa di Gorizia.
Il
viaggio per arrivare a Gorizia è stato faticoso, perché hanno
sparato su di noi per tutta la notte. Il mattino seguente ero
talmente stanco che mi sono addormentato in una trincea, chiamata
“del lenzuolo bianco”. Quando sono arrivato a Caporetto, dove
stava il mio reggimento, ci hanno detto che il compito di noi
graduati era quello di fornire armi, munizioni e cibo per i
combattenti sul costone Ursic del Monte Nero. Potevamo raggiungere il
Monte soltanto la sera, quando imbruniva, perché la strada era
scoperta, e sulla cima c’erano i tedeschi, pronti a gettare le
bombe ad ogni movimento sospetto. Quando nevicava era facile
sbagliare strada. Per orientarci seguivamo le impronte sul terreno,
ma la neve rendeva il percorso irriconoscibile. Una sera ho confuso
strada: stavo per entrare nella trincea dei tedeschi, ma un uomo mi
ha visto e ha iniziato a urlare: «Chi è? Chi è?», con un accento
veneto, «Via! Via! Fermo! Italia!», e mi ha salvato.
Quando
sei stato fatto prigioniero?
Abbiamo
capito di essere stati fatti prigionieri prima ancora che ce lo
dicessero. Qualche giorno prima avevamo visto volare in aria dei
palloncini, che i tedeschi avevano lanciato per studiare la direzione
del vento. In seguito hanno buttato nell’aria dei gas lacrimogeni.
Io sono stato contaminato e ho avuto problemi agli occhi per tutta la
vita.
Il
23 ottobre i miei superiori ci hanno chiamato per una missione.
Mentre attraversavo la valle, hanno iniziato a sparare. Una
pallottola ha sfiorato la mantellina che avevo sulle spalle, un’altra
mi è arrivata sul berretto e un’altra ancora sul tacco della
scarpa. Poi vicino a me ho sentito il rumore, come quello che il
vento fa tra i rami degli alberi, di una granata, che si è
conficcata nel terreno e non è esplosa. Molti dei miei compagni sono
morti durante quella traversata.
Mentre
camminavo, mi aspettavo di vedere il ponte sull’Isonzo, ma il ponte
non c’era più. Eravamo stati accerchiati e i reggimenti avevano
occupato la zona: il ponte era stato fatto saltare. Sono passato
accanto ad un soldato tedesco, con il sigaro in mano e una croce
rossa, che mi ha dato un calcio e mi ha portato via tutto: armi,
vestiti e oggetti. In quel momento ho capito che cosa mi stava
succedendo.
Di
lì a poco io e gli altri prigionieri abbiamo iniziato una marcia
lunga sette giorni, verso Kranj. Non avevamo cibo, ci nutrivamo
dell’erba raccolta dal ciglio della strada, e dormivamo nei campi.
Ricordo che una notte, in una campagna jugoslava, uno dei nostri ha
rubato dei pali di legno per fare un fuoco e scaldarsi. La mattina,
quando i tedeschi ci hanno messo in fila, hanno scoperto che cosa era
successo e hanno punito cento persone a caso. Il ragazzo davanti a me
è stato preso, mentre io sono stato saltato. Non sono certo che
queste cento persone siano state fucilate; quel che so è che non
sono più tornate.
Nella
stazione di Kranj ci hanno finalmente dato qualcosa da mangiare, e ci
hanno caricato su un treno per portarci a Darmstadt, in Germania.
All’epoca tenevo un diario, che avevo intitolato “Le atrocità
tedesche”, in cui descrivevo tutto quello che mi succedeva, perché
volevo raccontarlo una volta tornato a casa. Un tedesco ha trovato il
mio libretto e ha urlato «Das ist mein!». L’ha preso e non me
l’ha mai più restituito.
Che
cosa è successo quando siete arrivati in Germania?
A
Darmstart i tedeschi ci hanno portato in un campo di lavoro. Stavamo
in alcune baracche e dormivamo su brandine fatte di paglia e
trucioli. La mattina ci alzavamo alle cinque e i tedeschi venivano a
contarci. Non ci davano da mangiare, ma più tardi potevamo avere una
bevanda, simile al tè, ma molto più diluita. Alle otto ci portavano
sul posto di lavoro, perché il nostro compito era quello di scavare
un canaletto. Le sentinelle ci osservavano sempre, erano vicine a noi
in ogni momento.
La
sera ci davano da mangiare 125 grammi di pane da dividere in 15
persone. Tagliavamo i pezzetti, seduti a terra con uno straccio per
raccogliere le briciole. Una sera uno dei nostri è morto con il
pezzo di pane ancora in mano e, quando i miei compagni se ne sono
accorti, gli hanno dato l’assalto per prendere il cibo. Io non ne
ho avuto il coraggio.
Siamo
andati avanti così per qualche mese, fino a che un generale si è
accorto che morivano sempre più persone, ed è venuto a vederci: ha
toccato il nostro corpo e ha sentito che eravamo troppo magri. Così
molti prigionieri sono stati mandati al lazzaretto.
Io,
invece, ero ancora abbastanza forte e sono stato portato in un altro
campo di concentramento. Lì mangiavamo 125 grammi di pane in 25, ma
si stava meglio, perché non c’erano lavori pesanti, dovevamo fare
solo delle pulizie. Qualche tempo dopo, però, ho provato a scappare.
Il momento giusto per saltare fuori dal campo era quando le due
sentinelle, che camminavano in direzioni opposte, si trovavano a
qualche metro l’una dall’altra. Sono salito sulle spalle di un
mio compagno e mi sono buttato dall’altra parte, ma sono atterrato
sui sassi, e ho fatto rumore. Le sentinelle hanno iniziato ad urlare.
Io sono scappato, avevo paura che mi uccidessero, ma non l’hanno
fatto. Mi hanno preso e mi hanno rimesso dentro. Per punizione, però,
io e gli altri, che stavano con me, siamo stati obbligati a
presentarci nel luogo della conta per una settimana ad ogni ora del
giorno e della notte. Se non ci presentavamo, i tedeschi venivano a
prenderci e ci trascinavano fuori. Alle cinque, inoltre, eravamo
obbligati a fare istruzione. La prima notte siamo riusciti ad
eseguire gli ordini, ma poi è diventato sempre più difficile,
perché non avevamo mai il tempo di riposare. Ricordo che mi
trascinavo, perché ero stanco e non ce la facevo più.
Quando
ti hanno portato via dal campo di lavoro?
Quando
è arrivata la notizia che la Russia era uscita dalla Guerra, hanno
iniziato a spostarci dal campo. Ci portavano nelle case delle persone
che avevano bisogno di aiuto per i lavori domestici. Alla fine di
novembre del 1918 io sono stato mandato in un paese nel nord della
Germania, a casa di una vedova, che aveva perso il marito in guerra.
Nei
primi giorni hanno radunato me e altri cinque italiani che stavano
nelle vicinanze e ci hanno portato a Copenaghen. Là la gente era
gentile, ricordo che alcune ragazze ci hanno regalato un po’ di
soldi e cioccolata, e ci hanno portato al cinema.
Il
giorno dopo siamo ripartiti con una nave: stavamo ritornando a casa,
perché la guerra era finita, ma ancora non lo sapevamo. Lo abbiamo
scoperto quando siamo arrivati a Cherbourg, in Francia, dove c’erano
tanti altri italiani che aspettavano di essere rimpatriati. Pochi
giorni dopo siamo giunti a Torino. Dal distretto mandavano i
sopravvissuti in Albania, perchè serviva aiuto per seppellire i
morti. Io, però, volevo tornare a casa, e ho fatto di testa mia: mi
sono infilato di nascosto in un treno merci e sono tornato a Venezia.
Sono arrivato a casa nel cuore della notte. Mio padre è quasi
svenuto, perché non aveva ricevuto la lettera che avvisava il mio
ritorno. La mia famiglia non aveva mie notizie da quando ero partito
per la Germania. Gran parte dei prigionieri erano stati uccisi o
erano morti. Io, invece, sono stato fortunato.
Giuseppe
è morto qualche mese prima di compiere cento anni. Per il resto
della vita ha lavorato come ferroviere.
Il
suo racconto è uno, in mezzo a centomila altre testimonianze di
persone sopravvissute alla guerra e alla fame, che si intrecciano e
ricostruiscono una trama intricata, capace di affascinare i figli e i
nipoti e di rendere indimenticabile la vita degli uomini.
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