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Musica: ecco la top 10 del 2015



di Matteo Nigris e Matteo De Cecco 5^G


Il 2015, pur essendo lontano dal risollevare questi anni Dieci dall’oblio che stanno attraversando, si è difeso piuttosto bene e rappresenta un piccolo passo avanti rispetto all’anno precedente. Ecco qua una lista dei dieci dischi che ci sono piaciuti di più



#1: Benjamin Clementine – At Least for Now

Il titolo di disco migliore dell'anno spetta a At Least For Now, album d'esordio di Benjamin Clementine. Il disco si contraddistingue per l'estro canoro dell’artista, che si destreggia senza fatica sia nei registri più gravi sia nel falsetto. Gli strumentali che fanno da palcoscenico alle acrobazie vocali sono sempre di gusto eccellente: fondamentale l'eclettico stile del pianoforte,che attinge sia da compositori classici quali Debussy e Satie che dai grandi pianisti del cool jazz. L'occasionale inserimento di percussioni e bassi elettronici contribuisce ad eliminare l'eventuale sospetto di avere a che fare con una semplice imitazione di una tradizione ormai desueta. Al contrario il disco suona sempre fresco, risultando quindi un successo completo.

#2: Kill the Vultures – Carnelian

Quello di Carnelian è un approccio destinato a fare scuola. Il duo (avvalendosi di una dozzina di musicisti addizionali) ricrea, tramite fiati, chitarre e archi suonati dal vivo, atmosfere al limite del paradossale per un disco hip hop. Il campionamento, basilare per chiunque si cimenti nel genere, viene infatti spodestato da un suono completamente analogico, per mezzo di cui riesce a emergere tutto il gusto del Kill the Vultures per il jazz avanguardistico, per le armonie dissonanti e per la sperimentazione in generale. Il flow, nella sua stortissima precisione, rende ancora più realistico e moderno questo vero e proprio manifesto rivoluzionario.


#3: Joanna Newsom – Divers


A cinque anni di distanza da Have One On Me, la Newsom ritorna sulla scena musicale internazionale e dimostra ancora una volta la sua maestria. Pregni di una nuova maturità, i brani del nuovo Divers, pur rimanendo vicini agli schemi del folk progressivo, abbandonano le strutture intricate tipiche dei predecessori e si focalizzano completamente sulla forza, la liricità e la perfezione degli arrangiamenti degli strumenti a corda e della voce. La semplicità e la purezza che ne scaturiscono sono tanto disarmanti da far brillare Divers come il disco più genuinamente emozionante della musicista e come uno dei più intensi del decennio in corso.


#4: Michael Gordon – Dystopia

Gordon,veterano classicista, registra dal vivo e raccoglie in Dystopia due nuove composizioni. La prima, “Dystopia”, si propone come una vera e propria sinfonia contemporanea. Attingendo tanto dai romantici quanto dalla tradizione post-minimalista della seconda metà del Novecento, l’artista pare voler descrivere un mondo frammentario e in continuo divenire, in cui è impossibile una staticità musicale, come testimoniato dagli incessanti cambiamenti della trama melodica e ritmica. “Rewriting Beethoven's Seventh Symphony” propone invece un riadattamento della Settima, in cui ritroviamo le tecniche della frammentazione delle parti e, mediante il recupero delle radici del musicista, di un’enfasi orchestrale di stampo totalista.


#5: Eve Risser – Des pas sur la neige

Da quando John Cage decise di inserire degli oggetti tra le corde del pianoforte per trasformarlo in uno strumento percussivo si sono aperti nuovi orizzonti sonori da esplorare con lo strumento. Ed è da questi che Eve Risser, con interesse che pare tanto scientifico quanto artistico, attinge. Al contrario di quanto la copertina e il titolo potrebbero suggerire, il campionario dei suoni del disco è tutto meno che innocuo ed ovattato, quanto piuttosto inquietante. Bordoni opprimenti e note gravi, intrise di nero languore, sembrano evocare piccoli ritagli di solitudine in un ambiente opprimente, a causa del suo silenzio e della sua innaturale immobilità.

#6: Firefly Burning – Skeleton Hill

I Firefly Burning in Skeleton Hill riescono a stupire grazie alla loro visione originale dell’indie pop. Infatti, dotati di uno spiccato gusto per le melodie e i ritornelli, costruiscono i loro pezzi su ritmi complessi, che suonano allo stesso tempo semplici e naturali, arricchendo il tutto con arrangiamenti di archi in stile chamber pop. Protagonista rimane comunque la voce della cantante, talvolta filtrata con l'utilizzo di un vocoder, le cui timbriche dolci vengono alternate ai contrappunti complessi dei cori. Notevole anche il contributo della chitarra, che a tratti ricorda Robert Fripp nei suoi lavori in collaborazione con Brian Eno.

#7: Pretend – Tapestry’d Life

I Pretend con Tapestry'd Life dimostrano che, mediante l'impiego di una tecnica fuori dal comune (pur non ostentata con futili virtuosismi) e grazie a doti di songwriting eccezionali, si può sopperire a una produzione non proprio eccellente e alla mancanza di una vasta gamma di suoni. Le canzoni sono lunghe cavalcate, caratterizzate da tempi bizzarri e strutture intricate, dal feeling quasi narrativo. Gli arrangiamenti maniacali delle chitarre, che si intrecciano in modi sempre imprevedibili,e il drumming fenomenale (vera spina dorsale dell’album) paiono voler riportare in auge il periodo d’oro del post-rock anni Novanta.


#8: Rabit – Communion

Communion è un disco di ritmi spezzati, rumori dissonanti e silenzi colmati dall'acufene. È allo stesso tempo elegante, freddo e aggressivo, meticoloso nelle sue imperfezioni. Le percussioni sono colpi di fucile e clangori metallici, i synth che emergono negli squarci tra un'esplosione e l'altra suonano gelidi ed evocano paesaggi industrializzati, rimasti deserti dopo la scomparsa dell'uomo. Con questo disco Rabit sintetizza perfettamente ritmi complessi dell'elettronica glitch e tendenze industrial.


#9: Rudresh Mahanthappa – Bird Calls

Rudresh Mahanthappa firma con Bird Calls la sua opera solista più riuscita. Continuando a basarsi sulla tradizione jazzistica più legata al post-bop, il musicista concentra il suo discorso su “dialoghi” eseguiti al sassofono, mezzo prediletto per esprimere questi “richiami degli uccelli”, i quali creano un gioco di rimandi che, seppur sotto forma di intermezzi, tesse la trama dell’album. Un drumming precisissimo quanto lunatico (se non, a momenti, completamente rock) e il piano variegato di Matt Mitchell (autore del recente Vista Accumulation) reggono gli sforzi melodici di Mahanthappa, conferendo all’organico una compattezza e una coerenza difficili da trovare nel terreno del jazz contemporaneo.

#10: Anna von Hausswolff – The Miraculous

Immerso in un’aura di nostalgico misticismo, The Miraculous si delinea come un ponte fra la darkwave più tradizionale e le sperimentazioni di Jarboe e Swans dei primi anni ’90. Le atmosfere sognanti, tessute da un maestoso organo, entrano in contatto con una realtà proveniente da un abisso che non c’è più, vengono sporcate e contaminate da una ripetitività brutale, ossessiva, sfiancante. Se il più lampante esempio delle intenzioni della musicista svedese si ha nella prima metà del disco ( “Come Wander with Me / Deliverance” è il masterpiece di turno), nella seconda si può intravedere qualche luce soffusa e distante, come nel finale acustico di “Stranger”.

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