Il 2015, pur essendo lontano dal
risollevare questi anni Dieci dall’oblio che stanno attraversando,
si è difeso piuttosto bene e rappresenta un piccolo passo avanti
rispetto all’anno precedente. Ecco qua una lista dei dieci dischi
che ci sono piaciuti di più
#1: Benjamin
Clementine – At Least for Now
Il titolo di disco migliore dell'anno
spetta a At Least For Now, album d'esordio di Benjamin
Clementine. Il disco si contraddistingue per l'estro canoro
dell’artista, che si destreggia senza fatica sia nei registri più
gravi sia nel falsetto. Gli strumentali che fanno da palcoscenico
alle acrobazie vocali sono sempre di gusto eccellente: fondamentale
l'eclettico stile del pianoforte,che attinge sia da compositori
classici quali Debussy e Satie che dai grandi pianisti del cool jazz.
L'occasionale inserimento di percussioni e bassi elettronici
contribuisce ad eliminare l'eventuale sospetto di avere a che fare
con una semplice imitazione di una tradizione ormai desueta. Al
contrario il disco suona sempre fresco, risultando quindi un successo
completo.
#2: Kill the Vultures – Carnelian
Quello di Carnelian è un
approccio destinato a fare scuola. Il duo (avvalendosi di una dozzina
di musicisti addizionali) ricrea, tramite fiati, chitarre e archi
suonati dal vivo, atmosfere al limite del paradossale per un disco
hip hop. Il campionamento, basilare per chiunque si cimenti nel
genere, viene infatti spodestato da un suono completamente analogico,
per mezzo di cui riesce a emergere tutto il gusto del Kill the
Vultures per il jazz avanguardistico, per le armonie dissonanti e per
la sperimentazione in generale. Il flow, nella sua stortissima
precisione, rende ancora più realistico e moderno questo vero e
proprio manifesto rivoluzionario.
A cinque anni di distanza da Have One On Me, la Newsom ritorna sulla scena musicale internazionale e dimostra ancora una volta la sua maestria. Pregni di una nuova maturità, i brani del nuovo Divers, pur rimanendo vicini agli schemi del folk progressivo, abbandonano le strutture intricate tipiche dei predecessori e si focalizzano completamente sulla forza, la liricità e la perfezione degli arrangiamenti degli strumenti a corda e della voce. La semplicità e la purezza che ne scaturiscono sono tanto disarmanti da far brillare Divers come il disco più genuinamente emozionante della musicista e come uno dei più intensi del decennio in corso.
Gordon,veterano classicista, registra
dal vivo e raccoglie in Dystopia due nuove composizioni. La
prima, “Dystopia”, si propone come una vera e propria sinfonia
contemporanea. Attingendo tanto dai romantici quanto dalla tradizione
post-minimalista della seconda metà del Novecento, l’artista pare
voler descrivere un mondo frammentario e in continuo divenire, in cui
è impossibile una staticità musicale, come testimoniato dagli
incessanti cambiamenti della trama melodica e ritmica. “Rewriting
Beethoven's Seventh Symphony” propone invece un riadattamento della
Settima, in cui ritroviamo le tecniche della frammentazione delle
parti e, mediante il recupero delle radici del musicista, di
un’enfasi orchestrale di stampo totalista.
Da quando John Cage decise di inserire
degli oggetti tra le corde del pianoforte per trasformarlo in uno
strumento percussivo si sono aperti nuovi orizzonti sonori da
esplorare con lo strumento. Ed è da questi che Eve Risser, con
interesse che pare tanto scientifico quanto artistico, attinge. Al
contrario di quanto la copertina e il titolo potrebbero suggerire, il
campionario dei suoni del disco è tutto meno che innocuo ed
ovattato, quanto piuttosto inquietante. Bordoni opprimenti e note
gravi, intrise di nero languore, sembrano evocare piccoli ritagli di
solitudine in un ambiente opprimente, a causa del suo silenzio e
della sua innaturale immobilità.
#6: Firefly Burning – Skeleton Hill
I Firefly Burning in Skeleton Hill
riescono a stupire grazie alla loro visione originale dell’indie
pop. Infatti, dotati di uno spiccato gusto per le melodie e i
ritornelli, costruiscono i loro pezzi su ritmi complessi, che suonano
allo stesso tempo semplici e naturali, arricchendo il tutto con
arrangiamenti di archi in stile chamber pop. Protagonista rimane
comunque la voce della cantante, talvolta filtrata con l'utilizzo di
un vocoder, le cui timbriche dolci vengono alternate ai contrappunti
complessi dei cori. Notevole anche il contributo della chitarra, che
a tratti ricorda Robert Fripp nei suoi lavori in collaborazione con
Brian Eno.
#7: Pretend – Tapestry’d Life
I Pretend con Tapestry'd Life
dimostrano che, mediante l'impiego di una tecnica fuori dal comune
(pur non ostentata con futili virtuosismi) e grazie a doti di
songwriting eccezionali, si può sopperire a una produzione non
proprio eccellente e alla mancanza di una vasta gamma di suoni. Le
canzoni sono lunghe cavalcate, caratterizzate da tempi bizzarri e
strutture intricate, dal feeling quasi narrativo. Gli arrangiamenti
maniacali delle chitarre, che si intrecciano in modi sempre
imprevedibili,e il drumming fenomenale (vera spina dorsale
dell’album) paiono voler riportare in auge il periodo d’oro del
post-rock anni Novanta.
Communion è un disco di ritmi
spezzati, rumori dissonanti e silenzi colmati dall'acufene. È allo
stesso tempo elegante, freddo e aggressivo, meticoloso nelle sue
imperfezioni. Le percussioni sono colpi di fucile e clangori
metallici, i synth che emergono negli squarci tra un'esplosione e
l'altra suonano gelidi ed evocano paesaggi industrializzati, rimasti
deserti dopo la scomparsa dell'uomo. Con questo disco Rabit
sintetizza perfettamente ritmi complessi dell'elettronica glitch e
tendenze industrial.
#9: Rudresh
Mahanthappa – Bird Calls
Rudresh Mahanthappa firma con Bird
Calls la sua opera solista più riuscita. Continuando a basarsi
sulla tradizione jazzistica più legata al post-bop, il musicista
concentra il suo discorso su “dialoghi” eseguiti al sassofono,
mezzo prediletto per esprimere questi “richiami degli uccelli”, i
quali creano un gioco di rimandi che, seppur sotto forma di
intermezzi, tesse la trama dell’album. Un drumming precisissimo
quanto lunatico (se non, a momenti, completamente rock) e il piano
variegato di Matt Mitchell (autore del recente Vista Accumulation)
reggono gli sforzi melodici di Mahanthappa, conferendo all’organico
una compattezza e una coerenza difficili da trovare nel terreno del
jazz contemporaneo.
#10: Anna von
Hausswolff – The Miraculous
Immerso in un’aura di nostalgico
misticismo, The Miraculous si delinea come un ponte fra la
darkwave più tradizionale e le sperimentazioni di Jarboe e Swans dei
primi anni ’90. Le atmosfere sognanti, tessute da un maestoso
organo, entrano in contatto con una realtà proveniente da un abisso
che non c’è più, vengono sporcate e contaminate da una
ripetitività brutale, ossessiva, sfiancante. Se il più lampante
esempio delle intenzioni della musicista svedese si ha nella prima
metà del disco ( “Come Wander with Me / Deliverance” è il
masterpiece di turno), nella seconda si può intravedere qualche luce
soffusa e distante, come nel finale acustico di “Stranger”.
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