di Shani-Yael Baldacci 4^I
Palazzo Sorbello, venerdì 8 aprile 2016 ore
17. Primo giorno al Festival del Giornalismo di Perugia. È proprio
lì, a quell’ora, che io assieme a tutto il pubblico presente in
sala siamo stati spettatori di una performance, ma non una
performance qualunque, un workshop, ma non uno qualsiasi, un workshop
linguistico, una presentazione di un libro, anzi no! Di un non-libro.
Fortemente attirata dal titolo della conferenza: “Cosa è successo
quando ho hackerato il mio tumore al cervello”, mi sono trovata di
fronte ad una coppia di ragazzi, un uomo dalla barba tricornuta che
ispirava simpatia e una donna dagli occhiali blu che scherzava con
lui. Erano Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, gli attori e allo
stesso tempo gli spettatori di quella che sarebbe stata un’ora
passata assieme. In breve capisco che Salvatore, ingegnere robotico e
hacker, nel 2012 scopre di avere un tumore al cervello e, invece di
arrendersi alla condizione di paziente decide di mettere su internet
la sua cartella clinica ricevendo milioni di contatti da tutto il
mondo e facendo della sua malattia una performance globale. L’esordio
della conferenza è stato: “Qualcuno qui ha il cancro?”. Un
inizio inusuale per una società piena di falsi miti e superstizioni
quale la nostra. Il fatto che nessuno alzasse la mano spinge
Salvatore ad aggiungere “Chi ha mai avuto a che fare con qualcuno
che ce l’ha o l’ha avuto”. Già qui un mare di mani cominciò
ad incresparsi. Questa breve statistica visuale serviva per dirci
che, da alcuni studi è pervenuto che ci siano più persone con il
cancro che persone con i capelli rossi. A quanto pare, quindi, il
cancro è una realtà quotidiana, è la così detta “malattia del
secolo”. A questo punto spunta tra le mani del relatore un libro
rosso con un’illustrazione bianca e un titolo: “LA CURA”. Era
dunque que
sta l’opera d’arte che ci
accingevamo a scoprire. La cura? Da cosa era ormai evidente, ma cosa
poteva esserci scritto in tutte quelle pagine? Come poteva essere
avvenuta questa cura? Ma soprattutto, chi l’ha messa in atto? E chi
l’ha scelta? Molte erano le domande e le curiosità e mai avrei
pensato di ricevere quel tipo di risposta. Una rivisitazione del
tutto nuova, una “demedicalizzazione” della vita, una condizione
in cui non è importante la malattia o il malato di cancro, ma lo
smettere di essere il paziente (nella sua doppia valenza) per
riacquisire il valore di essere umano. Chi ha vissuto questa malattia
ha paura della replicazione selvaggia delle cellule maligne e
Salvatore e Oriana stessi dicono di “aver imparato ad averne
paura”. La performance è la migliore metafora che le si possa
riferire, è un’azione tipica degli attori, in cui per un attimo si
sospende la realtà per metterne in gioco una nuova che sarà a sua
volta non-replicabile. Il miglior esempio pratico fornitoci dagli
autori è “4’33’’” di John Cage: il pianista resta immobile
davanti al pianoforte senza fare nulla per quattro minuti e trentatre
secondi, facendo diventare il pubblico parte fondante dell’esibizione
con uno starnuto, un colpo di tosse, un volantino che cade. È quasi
una “rivoluzione copernicana” kantiana in cui soggetto e oggetto
vengono invertiti per spiegare meglio la natura conoscitiva
dell’uomo. Da qui notiamo anche l’importanza della comunità per
la riuscita dell’esibizione: proprio come qui, senza il pubblico,
non ci sarebbe stato lo spettacolo, nel mondo, senza la società non
ci sarebbe vita. Salvatore afferma: “non ci si ammala da soli ed è
impensabile credere di potersi anche curare da soli”. È da qui che
i due autori hanno deciso di riprogrammare il significato della
parola “cura”. La cura al giorno d’oggi è un luogo di
separazione in tre modi: nel corpo, nella società e all’interno
della persona, ma la ferrea volontà di Salvatore di non fare della
vita un puro evento statistico l’ha por
tato a definire malattia e cura come
eventi individuali e collettivi, medici e comunitari. Il cancro è
una malattia difficile dal punto di vista fisiologico in quanto
implica delle incomprensioni tra cellule, ma proprio per questo
potrebbe essere lo specchio dei nostri tempi, dove esseri dotati di
tubo digerente ed emozioni troppo egoisticamente concentrati sul
proprio raggio d’azione si rifiutano di instaurare un dialogo che
oltrepassi la loro conoscenza. I medici, parlando in modo
specialistico di “lesione”, hanno fornito l’immagine opposta
della realtà ad Oriana, che ha visto in quel termine qualcosa di
superficiale e “aggiustabile”. Salvatore e Oriana hanno vissuto
la malattia attraverso gli occhi di due artisti. Hanno capito che
quando una persona si ammala cambia la sua vita ma anche quella di
tutte le persone che la circondano e che sono anch’esse frammenti
di quella performance curativa di cui parlavamo all’inizio. La
performance di Salvatore inizia quando chiede di poter vedere il suo
cancro. Era suo, faceva parte della sua quotidianità, voleva
mettersi in un angolo e parlarci. Oriana era sconvolta dalla sua
esistenza e faceva quasi difficoltà a vederlo e a nominarlo, tanto
da scegliere per lui un nomignolo: Glio. Ognuno di noi proverebbe una
sorta di rigetto o timore nel vedere un insieme di cellule maligne,
eppure sfogliando le pagine del libro, ogni capitolo è
contrassegnato da un’illustrazione delle risonanze magnetiche del
nostro protagonista che attizzano l’occhio curioso del lettore. È
impressionante come solo grazie ad un cambio di prospettiva si
possano guarire molte cose. Da una malattia fisica, ad una malattia
psicologica, fino ad una malattia sociale.Adesso Salvatore vive di
sei mesi in sei mesi, con la speranza di non incontrare mai più Glio
ma con il suo sorriso contagioso sempre presente sul volto. Al
termine della conferenza i due autori ci hanno gentilmente concesso
un’intervista e una chiacchierata che non riporteremo nella sua
totalità su carta per motivi logistici ma che caricheremo sul blog
del giornale come supporto audio visivo.
Voi avete parlato della cura come
somma di cura medica e cura “di società”, confrontandoci tra di
noi abbiamo notato due idee contrastanti su questa interpretazione
dei fatti: chi pensa che la tua decisione sia una rottura di uno
schema, in quanto nella nostra società si tenta di sfuggire da ciò
che in qualche modo fa del male all’organismo; e chi, invece, la
vede come cosa naturale in quanto elemento partecipativo della nostra
vita e quotidianità. Cosa ne pensi tu di queste due controparti?
È sbagliato, nel senso di errato, di
non corretto, di problematico, il pensare che i due tipi di cura, ma
in realtà, i milioni di tipi di cura, siano dividibili, scindibili.
In realtà è l’altra modalità la forzatura, quella di separare.
Perché non ci ammaliamo da soli ed è anche problematico pensare di
potersi curare da soli. Oltretutto queste discipline, pratiche,
metodologie che siano scientifiche, artistiche, chimiche,
nutrizioniste hanno effetti sulle altre. Il cancro è una malattia
molto particolare. Per questo noi abbiamo delle cartoline che stiamo
distribuendo, su una c’è scritto: il cancro è una metafora.
Perché una metafora? Perché in realtà è una metafora del mondo in
cui stimo vivendo adesso. Il cancro ha a che fare con l’ambiente,
con quello che mangiamo, con lo stress, con tutto quello che
facciamo, con la nostra cultura, con le scelte che facciamo, con le
cose che ci sembrano normali, anormali. È quindi una cosa molto
complessa. Ma perché avviene? Non lo sappiamo chimicamente, ma per
tutto questo grande scenario avviene perché come le cellule del
cancro non riescono più a trovare il senso, se devono diventare
fegato, piuttosto che pelle o polmone, questa cosa vale come
parallelo per noi come società perché non riusciamo a trovare il
senso di come ci dobbiamo comportare con l’ambiente,
quindi che scelte fare per
l’alimentazione, per l’educazione, per la cultura, per la
scienza, dove direzionare la ricerca. E questo senso non si crea dal
nulla, ma dalla società. Quindi per le cellule nella loro società
di cellule. Pier Mario Biava, che non è solo la persona che ha fatto
la prefazione del libro, ma è anche l’oncologo che ci ha seguito
più da vicino ne parla proprio in questi termini di “perdita di
senso”, quindi le cellule immerse nella loro società non riescono
più a comunicare con le altre cellule e non riescono a capre che
cosa devono diventare. Proprio come noi non siamo più in grado di
comunicare per creare un senso e quindi non riusciamo a risolvere i
problemi. Non possiamo comunicare e non siamo capaci di creare senso
insieme. È quindi impossibile cercare di dividerli tutti questi
aspetti.
Per quanto riguarda la cura medica:
quale apporto hanno avuto su di te i medici e le persone che ti
circondavano all’interno della struttura e che ruolo ha avuto il
medico che ti ha operato. Ha avuto un valore aggiunto rispetto alla
cura psicologica dato da una parola, da un gesto e da un consiglio
offerto dalla società nella quotidianità?
Ovviamente ciascuno ha il suo ruolo in
tutto questo, ma i ruoli sono interconnessi. Ad esempio come abbiamo
scelto il medico, il chirurgo? L’abbiamo scelto come convergenza di
tante situazioni, ce l’avevano indicato persone di cui ci fidavamo,
persone che avevano mandato contributi per la cura, addirittura noi
adesso insegniamo solo all’Università di design di Firenze, ma
all’epoca insegnavamo anche alla Sapienza di Roma, nella facoltà
di architettura e facevamo anche qualche ,master a scienze della
comunicazione. Menziono scienze della comunicazione perché c’è
stata una mini riunione tra i prof di quella facoltà che hanno
studiato lo scenario italiano dei medici e hanno scelto come
contributo alla cura di segnalarmi questo chirurgo piuttosto che un
altro. Quindi da tutte queste convergenze di persone di cui
ci fidavamo, di colleghi, di
sconosciuti è emerso questo professore. Lui è Vincenzo Esposito e
opera al Neuromed a Pozzilli. Questa scelta è stata fatta quindi in
primo luogo da me e poi è stata sostenuta dall’intera società.
Quindi in realtà è sempre difficile capire quali sono i confini che
sono sempre sfumati e ovviamente, il gesto di un chirurgo che ti apre
la testa e fa una cosa così delicata come rimuoverti il tumore,
richiuderti la testa e poi ti svegli, cammini e parli, a una persona
che non sa di medicina e chirurgia ha del magico, dell’eccezionale,
ha dell’eccezionale anche per chi ne capisce qualcosa. È un’opera
infinita e lo è anche in un altro senso: il fatto che centinaia di
migliaia di persone si siano mobilitate per sostenere come potevano
con un’opera d’arte, con un consiglio, una dritta, una ricetta,
con un invito per una vacanza in Argentina, tutti a loro modo per
sostenere un loro compagno essere umano per curarsi. Quindi sono
gesti totalmente diversi: uno ha dell’incredibile,
dell’eccezionale, dello straordinario nel senso tecnico e di
capacità del dottore che è un uomo incredibile, l’altro ha dello
straordinario in un altro senso. I due vivono interconnessi. Da
questi pochi esempi, l’uno ha anche consigliato l’altro, quindi è
difficile creare classifiche che a me non piacciono molto.
Un grande ringraziamento va a questi
due splendidi artisti! Se siete curiosi di saperne di più vi invito
a leggere il libro “La Cura” e a visitare il sito www.la-cura.it
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