di Raffaele Indri 5^L
Strutturato
come un imponente collage di sequenze che raffigurano numerosi eventi
della vita del regista – che disquisisce in voice-over
della sua concezione di vita, di arte, di cinema – questo
documentario prettamente sperimentale (Mekas è, insieme con Stan
Brakhage, l’esponente di spicco del New American Cinema) intreccia
le sensazioni che lo compongono in modo totalmente casuale,
attraverso un processo di reminiscenza spontanea. La scelta artistica
non è né correlata alla notevole mole di materiale (il film dura
285 minuti) né è un virtuosismo compiaciuto e fine a se stesso:
Mekas intende sottolineare l’assoluta impossibilità di una
«coscienza del ricordo». Cosí in As
I was moving ahead
il rosso di un geranio può rimandare alla comunione della figlia,
che cederà il passo ai prati innevati di Central Park. Un gatto che
gioca, l’acqua di una pozzanghera che trema sull’asfalto, i
fotografi ambulanti di Soho. Non c’è ragione né consequenzialità.
È il monumento al tempo e alla memoria che il cinema attendeva, al
seguito dei lavori, in ambito letterario, di Proust o Faulkner.
Il regista Jonas Mekas |
“Poets
must write particularly, as a physician works: in the particular to
discover the universal.” In uno dei capitoli centrali del suo film,
Mekas cita l’autobiografia di Carlos Williams, artista novecentesco
a metà strada tra il movimento modernista e quello imagista. Il
regista lituano condivide la filosofia del letterato statunitense. Il
film, come già accennato, è una galleria coloratissima (come diceva
l'utente di un sito web: “a film in which every frame is a
potential tumblr picture”) di istanti della medietà vissuta.
Questo interesse maniacale per il collage di particolari è, tra
l’altro, centrale nella lirica moderna: si pensi dunque agli scorci
squallidi e decadenti della waste land eliotiana, o ai paesaggi
marini ed elegiaci di To
the lighthouse
di Virginia Woolf). È la costellazione di questi frammenti che offre
la possibilità al pubblico di cogliere il carattere generale della
visione dell’artista.
“We
all look for those important things. But there is nothing.” Mekas
ha settantotto anni, è notte fonda, è nella sua sala di montaggio,
dove sta tagliando e congiungendo sensazioni di una vita intera –
il matrimonio, il battesimo della figlia, quella volta che è stato
in Provenza e che caldo faceva. Può sospirare, vivere la nostalgia,
crogiolarsi nella malinconia, credere di aver sprecato la propria
vita, ma è indubbio che la serenità non può derivare dalle domande
che l'autore si pone. Mekas ha percorso i gradini di quel tempio alla
propria memoria ed è entrato, grave nel suo silenzio, per l'estremo
confronto con la sua coscienza. O ha filmato tutta la sua vita per
questo fine di ultima autoanalisi o ha compreso quale fosse
l'allegoria vuota e ha nondimeno scelto di celebrarla.
“I
am really a filmer,” dice, e dice la mancanza di chi non possa
altro che registrare la realtà, sperando forse che un giorno i
frammenti raccolti collimeranno e che da essi emergerà per incanto
un senso che sfugge alla nostra percezione quotidiana. Se l'atto di
fede per il cinema è così grande, volentieri un occhio si chiude
dinanzi a certe fragilità realizzative (la monotonia ipnotica del
sonoro, la rappresentazione insistente di oggetti floreali),
concependo così che questo tour de force da cinque ore si pone come
la radicalizzazione della concezione etico-estetica che aveva
caratterizzato, trent'anni prima, uno tra i movimenti cinematografici
più ispirati e influenti del secolo.
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