Anche quest’anno è andato, e tra un flop degli Alt-J,
l’ennesimo disco fotocopia della Garrincha e una raccolta di barzellette di
Caparezza, effettivamente qualche bel disco è uscito. I due grandi luminari
dell’arte qui presenti hanno provato a stilare una classifica delle dieci
migliori uscite del 2014 e quindi eccovela qua servita. Speranzosi del fatto
che almeno un album tra questi possa rientrare nei vostri gusti, vi auguriamo
un 2015 ricco di musica e felicità.
Fire! Orchestra – Enter
Il posto di “album dell’anno” spetta per il 2014 agli
svedesi Fire! Orchestra, collettivo di circa trenta musicisti i quali, dopo l’esordio
dell’anno scorso, infondono in questo nuovo lavoro tutte le loro esperienze ed
influenze musicali. L’opera riesce a far proprie le strutture tipiche delle big
band degli anni ’40-’50 (come quella di Duke Ellington), limitando anzi
l’elemento jazz quasi solo all’uso dei fiati: il gruppo ci spiazza in
continuazione con chitarre distorte, lunghe digressioni noise, tendenze
reminescenti del krautrock dei 70s e un uso della voce sorprendente, che spazia
dalle armonie dei due cantanti a vocalizzi deviati degni delle sperimentazioni
di Diamanda Galás nelle Litanies of Satan.
Un viaggio appagante e malato che merita assolutamente di essere compiuto.
Uochi Toki & Nadja – Cystema Solari
L'unità di vita artificiale FraLatEn apre il suo occhio-telecamera, poi richiude e riapre il diaframma dell'obiettivo, due volte in rapida successione. Con lo sguardo esamina lo
spazio circostante, trovandovi solo detriti inerti che fluttuano attorno a lui.
In lontananza vede Plutone: deduce che
si trova nel punto d'inizio della sua missione. Accende il motore e
inizia a navigare attraverso gli anelli tracciati dalle orbite dei pianeti,
riportati nella memoria del suo computer di bordo. Durante il suo viaggio
continua ad inviare i dati rilevati col suo occhio alla base; è stato
programmato per questo. Il suo viaggio si conclude con l'atterraggio sulla
superficie del sole, dove i suoi processori si sciolgono logorati dal calore. “Noncurante
de la fine, del calore, di potersi sciogliere...”
St. Vincent – St. Vincent
Il disco pop dell’anno ci è gentilmente offerto da Annie
Clark, in arte St. Vincent. Questo self-titled,
certamente grato alle
sonorità di Bjork e del primo Brian Eno, ci trascina impetuosamente in un
vortice di sintetizzatori zarri e squadrati, chitarre zanzarose e melodie
vocali fresche quanto semplici, a tratti persino infantili. Tra ballate
atmosferiche e sognanti (“I Prefer Your Love”, “Severed Crossed Fingers”) e
vere e proprie bombe a orologeria (“Birth in Reverse”, “Rattlesnake” ,
“Psychopath”), la cantante di Tulsa ci regala uno dei lavori di pop alternativo più divertenti e originali da
qualche anno a questa parte.
Battle Trance - Palace Of Wind
I Battle Trance sono un quartetto di sassofonisti che, in
questo disco d'esordio, riesce a sorprendere
con una reinterpretazione
originale del minimalismo di scuola Philip Glass. Il disco si dipana lungo tre
tracce, corrispondenti a tre movimenti di un'unica composizione che, priva di
veri e propri "temi, si sviluppa in
una forma senza ripetizioni delle
singole sezioni. I quattro musicisti si intrecciano in melodie circolari
armonizzando tra loro, dando la sensazione di un torrente che si alterna tra
momenti di piena e altri più placidi, ma sempre ricchi di pathos.
Johnny Mox – Obstinate Sermons
Dopo il brillante We=Trouble, Johnny Mox rielabora i punti
di forza del suo disco precedente, ovvero
loop di voce e beatboxing, e li
integra meglio nelle trame musicali da lui tessute. Sopra a un tappeto musicale
cangiante che rielabora influenze post-hardcore, gospel, raggae e space-rock Gianluca Taraborelli
tiene le sue prediche contro la rassegnazione che va diffondendosi in Italia.
Tutto il disco è pervaso da un'energia travolgente, che straborda da ogni
accordo, che coinvolge l'ascoltatore e lo spinge a canticchiare i motivetti del
disco quasi fossero mantra.
Clipping – CLPPNG
Il trio hip hop di Los Angeles torna dopo soltanto un anno
con un nuovo disco ancora più surreale e distruttivo. Il tipico stile
industriale del gruppo si manifesta, qui, non tanto con il noise (che rimane
comunque componente fondamentale nei pezzi più violenti), ma tramite un
minimalismo sorprendente dei beat, un focus enorme sulle atmosfere (che variano
da impeti furibondi a lamenti moribondi) e un ottimo utilizzo dei
campionamenti, che spaziano da fiati jazz/soul a motoseghe. Il rapping si
adatta alle composizioni in modo eterogeneo, sembrando ora un fiume in piena
che scorre a velocità folle e ora un condannato a morte che legge la propria
sentenza. Tra collage sonori e gare di velocità su radiosveglie, CLPPNG è quanto di meglio possa offrirci
il 2014 in ambito hip hop.
Innercity Ensemble – II
Il secondo disco degli Innercity Ensemble si configura come
una sequela di improvvisazioni
(reminescenti della Third Ear Band) con il
comune denominatore della psichedelia, mescolata ogni volta con influenze diverse,
dalla ripetitività del kraut-rock ai muri di suono shoegaze, dalle ispirazioni
etniche incrociate col jazz (che fanno pensare al periodo anni '70 di Don
Cherry) alle strutture in crescendo del post-rock. Tuttavia il lavoro presentato
è tutt'altro che raffazzonato: al contrario, risulta sempre coerente e senza
cadute di tono, nonostante la quantità di musicisti provenienti da background
diversi riuniti sotto questo progetto.
Francis Harris – Minutes Of Sleep
Beat house minimali avvolti da atmosfere sognanti, conditi
con innesti di pianoforte, tromba e archi: queste sono le premesse di Minutes Of Sleep. Un prodotto
sicuramente di buon gusto, minimale nelle sue composizioni, che fa del mood la
sua carta vincente: ogni pezzo infatti riesce a trasmettere una sensazione di
malinconia che avvolge l'ascoltatore e lo trascina con sé. Il disco ha come
filo conduttore l'incomunicabilità dei lutti personali, e infatti risulta
sempre molto contenuto, mai scontato, anche nelle strutture delle composizioni
che non seguono il canonico schema per addizione tipico dell'house più
commerciale.
Pharmakon – Bestial Burden
Esben And
The Witch – A New Nature
A New Nature, l'ultima fatica del trio di Brigthon, colpisce
per la produzione (curata da Steve Albini,
membro di Big Black e Shellac) e in
generale per il sound scarno adottato dal gruppo: gli arrangiamenti disadorni e
l'uso limitato di effetti, coniugati col gothic rock del gruppo rendono ancora
più espressive e dirette le loro composizioni, che uniscono un senso di
tensione, nei momenti più "tribali", e dolcezza, nei momenti più
atmosferici e onirici. A far risultare ancora più evocativa la parte strumentale
ci pensa la voce di Rachel Davis, che canta (e racconta) quasi sussurrando la
storia di un viaggio, che funge da trait d'union tematico del disco.
a cura di Matteo Nigris e Matteo De Cecco, 4^G
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