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Una lancia spezzata per il Jobs Act

Non c’è che dire, questo non è proprio un governo di pacificazione! Ogni dichiarazione, atto o, peggio, azione governativa è sempre accompagnato da un lungo coro di critiche se non di insulti, soprattutto dalla sinistra sindacale e dalla rinascente destra. Il provvedimento che ha sollevato maggiori mobilitazioni e contestazioni è sicuramente il Jobs Act, la riforma del lavoro, che porta con sé tutte le polemiche legate al famoso articolo 18. Forse, per una volta, è utile fare qualche richiamo storico.
Lo Statuto dei Lavoratori, del 1970, è ancora oggi l’ossatura portante dell’attuale diritto di lavoro italiano: regola i rapporti fra il datore di retribuzione e i lavoratori, sancisce i diritti di questi ultimi e la loro rappresentanza sindacale. Fu una cosa fondamentale e di grande rilevanza per l’Italia dell’epoca, ma stiamo parlando di più di quarant’anni fa, i tempi in cui i Beatles pubblicavano il loro ultimo album, il muro di Berlino era ancora bello saldo ed era appena terminato l’autunno caldo del ‘68. L’articolo 18 prevede l’obbligo di reintegro del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo, cioè discriminatorio, ingiustificato o dovuto a motivi economici. Benissimo, ma come spesso succede nel Belpaese, c’è un inghippo: sono i giudici a dover valutare se un licenziamento è legittimo o meno, e di conseguenza l’obbligo di reintegro, perché non riguarda la condotta materiale, ma il fatto giuridico. Passando dalla teoria alla pratica, ciò significa che non è affatto scontato che un dipendente, sorpreso a rubare in fabbrica, si possa licenziare, come dimostrano vari e recenti fatti di cronaca.
Il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti,
durante la discussione in Senato del
Jobs Act
I sindacati, soprattutto la CGIL con la sua piazza da un milione di persone, vedono ogni riforma come un potenziale pericolo per i diritti acquisisti dai lavoratori, in particolar modo di questo punto. Dall’altro lato, il provvedimento-cavallo di battaglia del governo propone una nuova disciplina per i licenziamenti di natura economica, con compensazioni monetarie certe e crescenti in proporzione all’anzianità aziendale del lavoratore, riportando la nostra legislazione agli standard dell’Europa, in particolare del Nord del continente. Oltre a questo spinoso tema, all’interno della legge delega appena sfornata dal Parlamento e dai prossimi decreti delegati, sono contenuti molti altri importanti aspetti, dalla maternità per tutte le lavoratrici a prescindere dalla tipologia di contratto, all’istituzione dell’Agenzia Nazionale per l’Occupazione o al salario minimo garantito e aggiornato periodicamente. Questi e altri provvedimenti sono tesi a rendere più flessibile il mercato del lavoro e a semplificare le lunghe e onerose procedure burocratiche.

Fra i punti di maggior rilievo della riforma troviamo quello riguardante le tipologie di contratto: il simbolo stesso del precariato, il contratto di collaborazione a progetto, viene abolito favorendo, grazie a degli sgravi fiscali, i contratti a tempo indeterminato, come richiede l’attuale normativa europea. La semplificazione del diritto del lavoro e la conseguente certezza delle regole dovrebbe, insieme alla tanto attesa riforma della giustizia civile, aiutare a fare aumentare gli investimenti esteri nel nostro Paese. Sulla carta tutte queste cose piacciono a molti, ma prima di cantar vittoria sarà bene aspettare che le nuove norme entrino in vigore, ed essenziale in questo senso saranno i decreti attuativi, ma soprattutto essenziale sarà la risposta del mercato a queste novità.

Nicola Petrucco 4^H

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