Sarebbe come spiegare a parole
una geometria non necessariamente euclidea. Piani che si intersecano, spazi che
si sovrappongono, solidi rotanti in un vuoto impuro, artificiale. Due universi
che si compenetrano, il macrocosmo e il microcosmo di uno stesso ecosistema. Un
tavolo che è un pranzo, che è un insieme di gesti, una nevrosi collettiva, un
messaggio rispettoso. Una goccia cade pesante sul palco echeggiando, sempre più
amplificata, aumenta il riverbero. Ed è soltanto l’inizio.
Le intuizioni dell’arte concettuale
rielaborate attraverso linguaggi espressivi più contemporanei, tramite una
collaborazione e una saturazione di codici comunicativi posti su piani
differenti ma in coesistenza tra loro, dal video alla forma umana. Una ricerca
artistica pensata, voluta, risultato di un grande lavoro, una sinergia
d’intenti. La coreografia di ogni istante, l’esattezza delle forme, lo
spaesamento dell’insieme.
Una rilettura del Barocco, la
riscoperta di una vanitas umana forse semplicemente mai dimenticata, solamente
trascurata. Una natura morta consistente e tangibile colta nell’atto di morire,
filmata e rappresentata nel suo lento
marcire, divenire umida e sporca muffa. Come guardare Caravaggio
dipingere.
Assurdo è pensare alla vicinanza
di due epoche, la nostra e quella del 1600, che si direbbero così distanti tra loro, di
due momenti storici decadenti, di perdita totale delle certezze. Perché questo
alla fine rimane. Uno sconvolgimento di ogni prospettiva, la falsità di
qualsiasi punto di vista. Venire tramortiti da un esperienza sensoriale senza
precedenti, l’esaltazione del gesto banale, della consuetudine, l’esplosione di
piacere istintivo durante un pranzo, quasi una scena erotica.
Poi le verdure che sembrano
pianeti, orbite stellari in perenne movimento, l’isteria degli attori, i gesti
convulsi, caotica danza che ha qualcosa di grottesco, di sovrannaturale. Un
opera che nasce per farsi vivere, che anzi vive e si consuma davanti allo
spettatore. Un delitto intimo, nascosto, senza colpevoli, una sorte già scritta,
l’eterna punizione assurda dell’uomo, la vita come una lenta e inesorabile
condanna a morte.
“non abbiate pietà per me, sono
già morta” potrebbero essere queste le parole di una tragedia che non viene
spiegata, quella scomoda verità che viene solo fatta presagire all’interno dei
dialoghi sconclusionati e senza filo conduttore dell’intera rappresentazione.
Una domanda che ritorna, un epifania che non si vuole concedere. Non resta che
riflettere, porsi in maniera introspettiva nel confronto del tutto. Perché se
di teatro di tratta sempre dovrebbe essere così. Solamente il fragile sentirsi
inutili all’interno di una causalità che non si può fermare nè spiegare.
La morale ambientalista alla fine
sembra quasi risultare marginale rispetto ai potenti temi esistenziali evocati,
imprescindibili una volta compresi. Eppure non si può tralasciare neppure
questo, il dovere e la necessità in quanto uomini di curare il tutto, di
coesistere in sinergia e rispetto con ciò che ci circonda dando amore a chi ci
ritorna soltanto muta e materiale indifferenza.
Insomma, in conclusione,
l’ennesima perla del regista e artista Chris Haring e della sua compagnia
scenica Liquidloft, già in più occasioni premiata ed elogiata e capace sempre
di proporre forme nuove per approcciarsi alla realtà.
Carlo Selan 5^E
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