La ricerca di qualche disco del 2015 di cui valga la pena scrivere
è lunga e quasi totalmente priva di soddisfazioni: per consolarci abbiamo
deciso di fare i nostalgici e guardare un po’ all’indietro, per l’esattezza di
un decennio, verso un periodo che, per quanto possa sembrare strano a noi,
allora bambini e ascoltatori incoscienti, possedeva delle caratteristiche
uniche e, osservando i primi cinque di questi anni ’10, forse irripetibili.
Questa volta, quindi, parleremo di quattro dischi fondamentali per la
definizione del sound della prima decade del primo millennio. Il titolo
dell’articolo, che è anche quello di un pezzo dei cLOUDDEAD, è un collegamento
con quello che scriveremo nel prossimo numero. Buona lettura e buon ascolto!
Hood - Cold House
(2001)
Gli Hood arrivano al loro folk lo-fi intriso di elettronica
dopo una ricerca di identità durata 4 dischi, che li ha portati a sperimentare
shoegaze, post-rock e slowcore. Seppure il percorso sia diverso da quello che
ha portato alla genesi di Kid A è
facile paragonare i due dischi: entrambi si inseriscono perfettamente in
quell'idea di sintesi tra musica elettronica e rock alternativo.
Stilsticamente parlando però, il disco degli Hood per quanto
cosparso di suoni elettronici risulta sempre molto umano: gli arpeggi di
chitarra acustica che impreziosiscono le composizioni (“They Removed All Trace
That Anything Had Ever Happened Here”) e la voce malinconica (“Enemy Of Time”),
sostenuti dalle pulsazioni delle percussioni sintetiche (“You Show No Emotion at
All”), suonano straordinariamente organici. Tra i silenzi si fanno largo
riverberi nebbiosi e synth eterei (“Branches Bare”) che accrescono la
componente atmosferica dei brani, donandogli una delicatezza impalpabile e
acuendo il senso di nostalgia che, a partire dalla copertina, permea tutta
l'opera. A coronare il tutto le collaborazioni di Dose One e Why? dei cLOUDDEAD
che, sebbene sulla carta possano sembrare fuori luogo, si dimostrano
impeccabili e perfettamente adatte al mood (“You're Worth the Whole World”).
Dove Kid A soffre
la sua natura di esperimento, Cold House
è invece decisamente maturo e riesce pertanto a raggiungere lunghezze d'onda
emotive più alte sfruttando a pieno i suoi mezzi espressivi.
Joanna Newsom – Ys (2006)
Dopo l’entusiasmante e particolarissimo esordio, The Milk-Eyed Mender (2004), Joanna Newsom cambia rotta e trasforma i propri folli e frammentati dialoghi con l’arpa in mastodontiche composizioni orchestrate. Non bisogna però aspettarsi archi trionfanti e fiati gloriosi: oltre ai giganti del folk da camera degli anni ’60 (su tutti Van Morrison e Nick Drake), l’artista riprende gli arrangiamenti minimali e claustrofobici di Lisa Germano, snaturandoli però della propria drammaticità e inserendoli in un contesto esteso e medievaleggiante. Si rimane dunque in bilico tra giocose arrampicate vocali (degne della Bjork più spensierata dei primi 90s) e atmosfere struggenti, estenuanti nelle loro architetture sospese tra i numeri progressive folk di Roy Harper e i fingerpicking di Leonard Cohen, un equilibrio possibile solo grazie all’orchestra di supporto, che riesce sapientemente a conciliare due mood tanto diversi in pezzi di dimensioni titaniche. Così, se “Emily” è poco più dell’esercizio di una bimba capricciosa, seduta su un ceppo a strimpellare la propria arpa, “Only Skin”, che vede la Newsom perfettamente a suo agio con il nuovo assetto, raggiunge una varietà di picchi emotivi assolutamente inedita, tra svolazzi, sussulti e armonie.
Con questo album Joanna conferma la tendenza affermatasi a partire dall’avvento del nuovo millennio, ovvero la ricerca di un nuovo utilizzo per gli strumenti classici in ambito indie rock/indie folk: pur non avendo questi nemmeno l’ombra della monumentalità e del gusto rinascimentale di Ys, è d’obbligo citare Funeral degli Arcade Fire e Illinois di Sufjan Stevens tra gli ispiratori del fenomeno a livello mondiale.
Radiohead - Kid A (2000)
Reduci dal grande successo commerciale di OK Computer, i Radiohead compiono un brusco cambio di direzione: invece di produrre un altro disco sulla scia del precedente decidono di cambiare completamente approccio alla loro musica, introducendo in dosi massicce sintetizzatori e drum machine, riducendo per contro le parti di chitarra.
Seguendo le idee del leader Thom Yorke, i vari musicisti perdono il loro ruolo legato al singolo strumento e diventano creatori di suoni da orchestrare, ponendo le basi per quella che sarà la ricerca dominante degli anni 2000, ovvero la fusione tra l'alternative rock e la musica elettronica, giunta alla maturità nella decade precedente. Tutte le premesse vengono concretizzate: gli arrangiamenti sono sempre sobri ed eleganti, gli spunti sonori attingono dalla musica IDM degli anni '90 (Aphex Twin e Autechre vengono citati dal frontman come sue influenze, vistose nel beat di “Idioteque”), dalle avanguardie del primo '900 (in “How to Disappear Completely” viene impiegato la tastiera Onde Martenot, simile come registro al theremin) e in qualche saltuaria digressione anche dal jazz (“The National Anthem”).
Su questo panorama inane, che alterna momenti di alienante tristezza a convulsi movimenti di schegge elettroniche, si innesta la voce di Yorke, completamente privata del suo ruolo originario: essa infatti ha ora la valenza di un qualsiasi strumento (tanto che nel booklet del disco non vengono riportati i testi) e viene spesso filtrata con l'ausilio di effetti di studio che la rendono aliena, robotica e inquietante (“Everything in its Right Place” e “Kid A”). Le parole perdono completamente senso, rimanendo nell'oceano prelinguistico in veste di pura potenza, pur mantenendo la drammaticità del messaggio non esplicitato.
Il disco, che a suo tempo divise fortemente la critica, è oggi forse annoverabile tra gli episodi più importanti della musica mainstream del decennio
cLOUDDEAD cLOUDDEAD (2001)
Mentre le sonorità di Kid A definivano un nuovo canone nella musica mainstream, a livello di underground i 2000s conobbero una realtà tanto peculiare quanto inevitabilmente influente sulle registrazioni future: il tentativo di conciliare le nuove e sperimentali tendenze elettroniche con l’hip hop, che già dagli anni ’90 stava subendo un lento e timido processo di astrazione. Tuttavia l’apice di questa decade di ricerca si trova proprio al suo inizio, nel 2001, con l’omonima compilation dei cLOUDDEAD. A distanza di 14 anni il trio può vantare quello che è forse l’unico esempio in musica in cui la componente hip hop è completamente indistinguibile da tutte le altre, un disco che ancora oggi appare visionario e miracoloso. È proprio grazie a questa simbiosi perfetta che è possibile identificare con tanta facilità le sonorità più ricorrenti negli anni che seguiranno cLOUDDEAD: ritmi che spaziano dal lento e dilatatissimo alla frenesia quasi tribale (“Jimmybrezze” condensa praticamente tutta la loro ricerca), campionamenti da universi paralleli (non lontani dalle idee dei The Residents), sintetizzatori che ricordano sempre di più segnali di sistema di un pc, un gameboy, i rantoli di un robot in fin di vita.
Ma ciò che veramente contraddistingue il lavoro da tutti gli altri è l’impeccabile riuscita dell’atmosfera, sempre sospesa tra l’opprimente e il sognante, e talmente amalgamata con il rapping di Why? e Doseone da far perdere il senso della realtà durante l’ascolto e proiettare in un mondo in cui gli eventi risultano inscindibili l’uno dall’altro, rendendo l’ascoltatore uno spettatore totalmente passivo della realtà. Una prova irripetibile e assolutamente necessaria per la comprensione del fenomeno elettronico e hip hop che ha sconvolto la decade passata.
Matteo Nigris e Matteo De Cecco 4^G
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