Passa ai contenuti principali

Garissa e Kigali: l’Africa soffre ma può rialzarsi

"148 is not just a number!", l'urlo dei manifestanti dopo la strage di Garissa
Sono centoquarantotto i morti al Campus Universitario di Garissa, in Kenya. Vittime di un attacco terroristico di un gruppo di islamici, infuriati per l’intervento militare kenyota che aveva ostacolato il loro operato in Somalia: i carnefici si sentivano, essi per primi, vittime. Ma gli studenti con i loro sogni, i loro libri, e la loro fede, vissuta come una normale componente della vita, avevano poco a che fare con certe rivendicazioni geo-politiche. Episodi del genere accadono spesso in Africa. Possono incendiarsi per questioni religiose, territoriali, etniche, anche se resta un filone comune a legarli tutti: una politica coloniale fallimentare che ha lasciato una ferita ancora aperta, una classe politica spesso corrotta e una società civile poco pronta a tenere viva un’effettiva democrazia. Tuttavia, questi sanguinosissimi conflitti etnici possono essere superati, e il Ruanda, che il 7 aprile ha celebrato l’anniversario di un terribile genocidio, dà speranza con il suo esempio.
Questo piccolo paese, incastonato tra Uganda e Congo, fu 21 anni fa scenario di uno dei più terribili spargimenti di sangue della storia. Quasi un milione di Tutsi (forse più noti con il nome italianizzato “Watussi”) furono sterminati dagli Hutu, nella quasi indifferenza degli stati Occidentali, o quantomeno del Consiglio di sicurezza dell’ONU. I due gruppi etnici convissero pacificamente per secoli, finché i colonizzatori belgi decisero di adottare anche qui la gretta mentalità razzista tanto in voga a quei tempi e supportata da schiere di scienziati. I tutsi, più alti e dinoccolati, dai lineamenti più europei, e mediamente più ricchi e colti, vennero scelti per fare da classe dominante nella nuova colonia. Fu sancita una superiorità razziale ovviamente intollerabile per la maggioranza hutu del paese, che originò le prime frizioni tra i due gruppi. La contrapposizione tra le due etnie fu fomentata sempre più: quando i tutsi guidarono il Ruanda all’indipendenza, i belgi cambiarono alleanza, favorendo gli hutu e costringendo molti tutsi a rifugiarsi nei paesi confinanti, senza però sedare il loro desiderio di rivalsa. Nel 1994 si raggiunse l’apice delle tensioni: l’odio verso i tutsi, alimentato dalle radio che diffondevano inviti alla violenza e allo sterminio, convinse molti hutu a fornirsi di mazze e uccidere i vicini di casa tutsi, e tra un colpo e l’altro si superò presto le ottocentomila vittime.

L'ambizioso progetto del governo ruandese per lo sviluppo di Kigali
Oggi il Ruanda è un paese in crescita e pacifico. Molti degli artefici del genocidio sono stati giudicati con processi regolari, che un parlamento democraticamente eletto ha potuto garantire. E nonostante la tragedia dei mesi del ‘94, ora hutu e tutsi convivono pacificamente, gli orrori del passato forse mai dimenticati ma quantomeno perdonati, nella consapevolezza che la riconciliazione è il solido mattone per ricostruire sulle macerie. Fondamentali per garantire pace e crescita sono state anche le donne, che godono di grande rispetto e prestigio nel paese, che si colloca al settimo posto globalmente in quanto a parità di genere (l’Italia si posiziona al 69° posto). La leadership visionaria del presidente Paul Kagame ha fatto di tutto per rendere il Ruanda un’oasi per il commercio: la corruzione è a livelli bassissimi e la nazione è la terza in Africa in cui è più facile fare business. Un tale miracolo non sarebbe potuto avvenire senza il forte governo di Kagame, che si appresta a concludere il secondo mandato e sta modificando la costituzione per potergli permettere un terzo governo. La libertà nel paese ne ha risentito, gli oppositori politici non hanno vita facile ed è difficile pensare ad un possibile successore al maestro della riconciliazione; sarebbe un vero peccato se tutto ciò che si è ottenuto con fatica sfumasse all’allontanarsi dell’attuale presidente. Tuttavia nelle democrazie più giovani, spesso un governo autoritario ma illuminato è l’unico capace di garantire prosperità e stabilità, affrontando anche scelte controverse e progettando a lungo termine, un po’ come è successo a Singapore, oasi felice nell’oceano indiano. Kagame sogna per il Ruanda un futuro simile a quello della tigre asiatica, con non poca ambizione: la posizione del paese non è altrettanto strategica e i paesi confinanti, tra cui il Congo, covo di conflitti e corruzione, non sono i migliori vicini di casa. Il dramma del genocidio ruandese potrà forse offrire a noi europei, che ultimamente ci abbandoniamo spesso e volentieri a pregiudizi e populismi, un ennesimo esempio di ciò a cui l’esasperazione delle tensioni razziali può condurre. Ma il messaggio più forte che possiamo ricavare dal Ruanda, con la sua pace e la stabilità, è un messaggio di speranza. Anche i peggiori conflitti possono essere risolti con un po’ di razionalità e umanità, e i caduti, siano essi centoquarantotto o ottocentomila, possono servire da monito ed essere perfino il fondamento per un futuro migliore, nella bellicosa Africa come nel resto del mondo. A Garissa e a Kigali non sono morti invano.

Elias Ngombwa 5^I

Commenti

Post popolari in questo blog

Moonshine, drink it all the time

di Matteo Nigris e Matteo De Cecco 5^G Forti della recente uscita di Carnelian [2015] e della risposta fondamentalmente ottima della critica specializzata, i Kill the Vultures, duo hip hop di Minneapolis costituito da Crescent Moon (rapping) e DJ Anatomy (beat, strumentali), hanno iniziato a marzo un tour europeo che vede come grande protagonista l’Italia, in cui terranno tredici date. Una di queste, grazie al contributo di Hybrida, che si occupa dal 2003 di portare musica dal vivo in zona, è risultata essere proprio Udine, nella programmatica location del bar del Cinema Visionario. Così come il cinema unisce individui dalle più disparate formazioni culturali in uno stesso luogo, così il concerto si è dimostrato essere tutto meno che un’adunanza fra patiti di hip hop: l’11 aprile (dopo un rinvio di una settimana dovuto alla nascita imprevista del figlio di Anatomy) la “fauna” che si riunisce in via Fabio Asquini è quanto mai eterogenea, quasi insperabilmente considerata la nat

Lettera al Messaggero Veneto

Giovedì 2 luglio abbiamo scritto una lettera al Messaggero Veneto in protesta ad un articolo sul Marinelli contenente informazioni imprecise e talvolta inventate, sperando di vederla pubblicata o quantomeno di ricevere qualche spiegazione. Purtroppo non è stato così e non abbiamo nemmeno ricevuto una risposta. Non ci resta allora che pubblicare qui la lettera, dando a tutti la possibilità di conoscere i veri fatti, nella speranza che, complice la viralità del web, si riesca a destare l'attenzione del Messaggero Veneto. Caro direttore, Le scriviamo questa lettera per esprimerle il nostro disappunto a riguardo di un articolo apparso sul vostro giornale domenica 28 giugno e intitolato Maturità 2015, gli studenti del Marinelli: "Udine addio, vado al Politecnico". Già dal titolo si capisce quale sarà il tono dell'articolo, ma il peggio arriva dopo. L'articolo è solcato da una serie di fatti puramente inventati. La Sara intervistata ha solo detto che proverà i

Il Combattente

La storia di Karim Franceschi, un italiano che ha difeso Kobane dall’Isis di Marco Mion 5^C Le sue mani hanno accarezzato volti e impugnato Kalashnikov e i suoi occhi hanno contemplato i sorrisi e i lutti di un popolo che, seppur ignorato dai riflettori internazionali, combatte per conquistare la propria libertà, la pace e la democrazia. Karim Franceschi è uno scrittore e attivista politico di ventisette anni che ha combattuto contro lo Stato Islamico a Kobane tra le fila dei partigiani Curdi. E’ stato ospite d’onore, assieme al giornalista Corrado Formigli, al decimo Festival Internazionale del Giornalismo tenutosi a Perugia, in cui ha presentato il suo libro “Il Combattente”. Ha raccontato in una Sala dei Notari gremita una realtà drammatica con estrema sensibilità, elogiando i valori e gli ideali che scandiscono la vita di questi combattenti. Inevitabile il confronto tra questi uomini e donne e quei partigiani che, insieme alle forze alleate, libera