Che
importanza ha la propaganda nel fenomeno Isis? E quanto di quello che arriva a
noi tramite i mass media è effettivamente vero? Temi come questi sono stati
affrontati nella conferenza intitolata “Isis, dentro l’esercito del terrore” al
festival del giornalismo di Perugia. A questo proposito, abbiamo intervistato
Fabio Chiusi, giornalista freelance di Udine intervenuto nell’incontro, e che
scrive per “La Repubblica” e “L’Espresso” occupandosi di
censura, di sorveglianza su Internet e del rapporto tra tecnologie digitali,
politica e società.
Come possiamo capire,
quindi, cosa stia davvero succedendo in Medio Oriente, avendo a disposizione
esclusivamente mezzi di comunicazione di massa?
Penso
che sia uno sforzo immane, ma innanzitutto consiglio di imparare l’inglese, perché
in questo modo avrete una molteplicità di fonti enorme, e non parlo solo di
giornali. La maggior parte di quello che ho capito del fenomeno Isis deriva
dallo studio di papers, studi
scientifici esclusivamente in inglese. E devo dire che sono proprio semplici,
anche più di quanto si sia portati a credere: sono semplicemente studi
quantitativi che prendono come campione un determinato numero di account
twitter, o di altri social network, e cominciano a studiarli nel tempo, a
monitorare quelli che vengono cancellati, a capire chi comanda e chi, invece, esegue.
Tutto ciò è naturalmente inconcepibile se ci si limita a leggere in italiano, in
quanto purtroppo non mi fiderei molto di ciò che arriva nel nostro paese. La
gran parte delle minacce a Roma, che almeno sono state passate per tali, in
realtà non sono vere. Io ho chiesto informazioni a dei miei amici che fanno
analisi di big data, e quindi hanno studiato migliaia di tweet, e mi hanno
detto che gli hashtag in cui venivano menzionate minacce simili finivano sul
web 50 volte su 1 milione 600 mila tweet, il che non ha assolutamente alcuna
rilevanza, neanche nel network jihadista.
E per quanto
riguarda invece il famoso inno che in questo periodo girava sul web?
I
jihadisti fanno spesso uso di strategie quali gli inni, visto che tendono a
dare un’atmosfera emotivamente carica. Tutti gli studi sulla propaganda dicono che
essa funziona più frequentemente quando, per l’appunto, è impostata in modo
tale da avere una valenza emotiva. L’inno serve a dare questa immagine di
continuità, perché è sempre lo stesso canto che si ripete, diventa quasi una
nenia, un invito a combattere, a creare questa immagine di forza, di potenza,
di inevitabilità della vittoria: tu verrai con noi, vivrai bene e vinceremo
insieme. Questo andava bene fino a un certo punto, quando militarmente continuavano
ad avanzare, ma adesso la questione è molto più complicata. Naturalmente,
capire se stiano avanzando o meno è un vero problema. Penso che in questo
momento, a maggior ragione, valga il detto “la verità è la prima cosa che muore
in guerra”.
Come si pone,
quindi, il giornalismo in Italia nei confronti di tutto quello che sta
avvenendo?
Secondo
me è un difetto storico dell’Italia il fatto che tralasci completamente gli
esteri, per il semplice motivo che costano: c’è bisogno di uffici, strutture
per difenderli, per dargli tutto ciò di cui necessitano e soprattutto per evitare
che diventino vittime di un attacco. Io non l’ho mai fatto, ma molti miei
colleghi hanno provato, e devo ammettere che è un brutto segnale, secondo me,
il fatto che il giornalismo in Italia non abbia soldi da investire, nonostante
il mondo sia sempre più interconnesso.
Ieri Edward Snowden
ha affermato che molti Stati stanno cercando di entrare nella sfera privata dei
cittadini con intercettazioni, per questioni di sicurezza. Questo, secondo lui,
non porterebbe a nulla, in quanto verrebbe negata la libertà di ognuno di noi e,
al contempo, non sarebbe effettivamente garantita una maggiore sicurezza. Lei
cosa pensa al riguardo?
Credo
che Snowden abbia assolutamente ragione. Questo, però, non è un suo pensiero, ma
deriva da tutti i fatti di cui siamo a conoscenza. Anche in questo caso
consiglio di puntare sull’inglese e sugli studi accademici, perché bastano
questi per arrivare a sapere che su 52 attacchi, sventati, secondo l’NSA,
grazie alla sorveglianza di massa, in realtà nemmeno uno è stato scoperto in
questo modo – forse uno, ma solo in parte.
Parlando
invece degli ultimi attacchi, tra cui quello a Parigi e a Copenaghen, tutti gli
attentatori erano già tenuti sotto controllo dall’Intelligence. Nonostante ciò,
la sorveglianza di massa non è riuscita a fermarli neanche in questo caso.
Quindi, quello che secondo me bisognerebbe fare sarebbe disinvestire in questi
programmi, come avevano tentato di fare gli Stati Uniti, anche se all’ultimo la
proposta era stata bocciata, e investire in quella che una volta si chiamava human intelligence, ovvero nelle spie. Preferirei
che queste facessero il proprio lavoro, piuttosto che qualcuno entri in
possesso delle nostre foto intime che ci scambiamo su Internet e che fanno
parte della nostra sfera privata.
Gaia Tempo 4^D, Diletta
Rosin 3^H
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