STORIE DI IMMIGRAZIONE
Il tema dell’immigrazione è sicuramente uno dei più ostici
con i quali si deve confrontare la politica italiana, principalmente per i
sentimenti contrastanti che esso suscita nella popolazione originaria. Ma se
negli ultimi anni in alcune frange della società civile ed anche della
politica, si è diffuso un clima di razzismo verso gli immigrati, ciò è dovuto
solamente alla mancanza di confronto col diverso. Questa è la convinzione a cui
giunge chiunque si sforzi di superare quel labile confine che divide due
diverse culture ed è spesso solo il prodotto di una mente ostile ai cambiamenti
ed alle aperture. Chi riesce a compiere questo passo smette di guardare al
fenomeno con diffidenza e comincia a tralasciare la generica definizione di
immigrato per guardare a ciò che ha davvero dinanzi: un essere umano con una
sua particolare storia e personalità. Una volta dato un nome ed un volto al
fantomatico immigrato avviene un
cambiamento drastico e si diventa interessati alla sua esperienza più che a
sapere se possiede un regolare permesso di soggiorno. Allora, magari, si scopre
che l’Italia e l’Europa non sono la El Dorado che tutti sognano; magari, a
volte, si è costretti ad emigrare non solo per migliorare la propria condizione
economica, ma, anzi, perché è l’unico modo di sopravvivere.
Quest’ultimo è il caso di M., il quale alla fine del 2009 ha
dovuto lasciare il "Congo-Kinshasa” (l’ex "Congo Belga") per
motivi politici. La situazione del Paese è difatti tuttora molto caotica perché
al potere si trova Joseph Kabila, dittatore succeduto nel 2002 al padre, il
generale Laurent-Desirè Kabila, che ha mantenuto il potere grazie ad elezioni
farsa nel 2006 e nel 2011. Il padre di M. lavorava per Jean Pierre Bemba,
sfidante di Kabila nel 2006, e fu ucciso dai miliziani di quest’ultimo. Fu
allora, ma soprattutto dopo gli oltre 500 omicidi politici ordinati dal
dittatore congolese fra il 2006 e il 2009, che M. comprese di dover fuggire
all’estero. Così fece, aiutato dal partito d’opposizione, e casualmente giunse
in Italia, a Padova. Qui, almeno inizialmente, per lui fu durissima: solo,
senza alcun amico né una minima conoscenza della lingua, per un paio di mesi il
bisogno lo portò a passare le fredde notti dell’inverno veneto prima in
stazione e poi nei ricoveri predisposti dal Comune. Non si fece scoraggiare,
però, neanche dall’atteggiamento tutt’altro che accogliente che trovò appena
arrivato ed è anzi proprio lui il primo a giustificarlo. “L’iniziale diffidenza
- dice - fu assolutamente comprensibile perché non posso pretendere
disponibilità da qualcuno che non mi conosce”; e aggiunge: “gli italiani sono
disposti ad accogliere tutti ma ci vuole tempo”. Ciò non toglie che talvolta
abbia dovuto confrontarsi con persone dalla mentalità razzista, ma, piuttosto
che piangersi addosso, M. preferisce sradicare la radice del fenomeno:
l’ignoranza. È difatti quest’ultima che impedisce un vero confronto
interculturale e dunque l’integrazione. Il disinteresse degli italiani verso
altre culture, ma anche il rifiuto da parte di alcuni immigrati di quella
italiana, sono la zizzania nel campo della pacifica convivenza. È proprio per
estirparla che M., pur avendo un lavoro completamente diverso, spende parte del
suo tempo libero ad organizzare incontri di sensibilizzazione sui temi
dell’immigrazione, dell’integrazione e del rapporto che gli immigrati hanno con
la loro seconda patria.
Uguale nella sua diversità è anche la storia di Mubashir,
ventottenne pakistano di etnia pashtun giunto in Italia dopo un lungo e
difficile viaggio attraverso Iran, Turchia ed Europa. Anch’egli, come M.,
appena arrivato ebbe molte difficoltà poiché non conosceva né la lingua né la cultura
italiana; anch’egli contesta l’atteggiamento di alcuni connazionali, chiusi
nelle proprie tradizioni, talvolta anacronistiche e sbagliate; anch’egli ha
dovuto abbandonare la sua patria per ragioni politiche. Fu infatti dopo il
2001, in seguito all’invasione statunitense dell’Afghanistan, che i talebani, i
quali fino a quel momento governavano il Paese, dovettero trasferirsi in
Pakistan dove cominciarono a creare problemi pretendendo di imporre la propria
visione estremista dei comandamenti coranici. I pashtun che vivevano nella zona
non volevano sottostare a questi soprusi e perciò chiesero aiuto al governo
pakistano, dal quale non ricevettero tuttavia alcun aiuto. Fu solo dopo
l’uccisione del fratello però che Mubashir si decise a lasciare sua sorella per
affidarsi ai trafficanti di uomini ed intraprendere il lungo viaggio della
speranza verso l’Europa, perché, come dice lui, “quello è un viaggio che si
compie solo se costretti”. I primi tempi, come già detto, furono durissimi, ma
non si perse d’animo e oggi può dire di aver raggiunto una sua stabilità qui in
Italia, nonostante tuttora desideri lasciare il nostro Paese per ricongiungersi
alla sorella ed andare a vivere in India o Malesia.
M. e Mubashir sono solo alcuni degli immigrati giunti in
Italia, ma tutti hanno una storia da raccontare. Quando parliamo
dell’immigrazione parliamo di loro e non di un fenomeno da studiare. Basterebbe
ricordare questo per infliggere una ferita mortale alla triste piaga del
razzismo.
Saverio Papa 4^G
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